DE BICICLETA EM BUSCA DAS BRUXAS DE PORTUGAL
“Aqui. Onde a terra se acaba e o mar começa”
Luis Vaz de Camoes – 1572 – Os Lusiadas
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Com uma velha bicicleta em busca das bruxas de Portugal (Donatella, Ritinha, Beatriz e altre streghe)
Da Setùbal alla Ponta de Sagres per l’Alentejo e l’Algarve, tra Oceano Atlantico e la Serra de Moncique – Giorni 7 – Km 444 – Dislivello + 5.224 mt
Giustificazioni e apologia
Questa volta ho esagerato. Il cicloviaggio è marginale e mera scusa per dare un simulacro di realtà a quanto ho creduto di aver visto e vissuto in questo viaggio in Portogallo, ed ancora una volta un alibi per liberare le mie presunzioni. Compiuto nel 2005, con una connotazione più viaggica che ciclistica, da Setùbal all’estremo lembo del Portogallo proteso verso il suo Mare Oceano, il viaggio nacque da una visione autarchica e anarchica, in tempi precedenti alla mia conoscenza dell’AIIC. Ebbe poi delle bizzarre ossature: una vecchia bici Jad da corsa guarnita con Campagnolo Veloce, modificata magistralmente con i rapporti da mtb da Nello ed un improbabile ed instabile portapacchi in acciaio inox costruito dal fabbro su mio disegno.
Il Portogallo e le mie infatuazioni di allora hanno preso poi il sopravvento sul viaggio. A quei tempi inseguivo un sogno che è poi una storia antica che vive in tanta parte del Portogallo. La leggenda della “Moura Encantada” e dell’amore tra un cavaliere, un soldato, un nobile cristiano e una ragazza, una poetessa, una cantante, una musicista, una nobile allevata cristiana, ma con anima mora. Cercavo una ragazza dai capelli neri come la notte, come un manto di velluto, dagli occhi neri, caldi, profondi, incantati nel passato. Cercavo nel suo sguardo una tristezza assente fatta di saudade, di assenza di cose di cui non ricorda. La sua tristezza assente rende il suo corpo una spiga dorata, un desiderio doloroso per tutti quelli che la vedono e che la sentono suonare il liuto e cantare le sue canzoni. Chi incontra i suoi occhi vede il suo passato e il passato della sua terra, si innamora della sua bellezza. Chi sente la sua voce si innamora della sua voce, a distanza di anni la ricorda vivida e pulsante nel cervello. Si rimane permeati, si affoga in una sensazione calda, melodiosa e sensuale, in un caldo e languido abbraccio d’amore.
Per me in quella terra esisteva una sirena alla quale non si poteva rinunciare. Era solo letteratura? Non lo so. Eccomi comunque a raggiungere i villaggi più reconditi dell’Alentejo, a percorrere gli spalti di tutti i castelli del Portogallo, quelli che guardano la Spagna e quelli che guardano l’Oceano. Affino i sensi e ascolto il canto, il suono del liuto, un fremito nell’aria, una vibrazione di calore, un odore… Lei sarà lì.
“Muitos cavaleiros por ali passassem, ela deixava-os ir e vir. continuava sentada no seu trono invísivel, sorrindo um sorriso longínquo, intocável, sempre”.
Altra fissazione di quei tempi: as Bruxas (le streghe). Credevo di incontrare, a volte, delle signore anziane, ma anche giovani, che già dalle poche frasi scambiate e dagli sguardi mi davano una rapida, vaga percezione che sapessero più di quel che avrebbero dovuto sapere, sul mondo e su di me.
Da casa a Setùbal via Lisboa, in treno, fu un viaggio nel viaggio. Prima con l’Eurostar, il nonno delle odierne frecce, da Ancona a Milano e poi con il romantico e ormai soppresso treno notturno fino a Barcellona, quindi in auto fino a Madrid e ancora in treno notturno da Madrid alla stazione di Santa Apolonia di Lisboa. Ci vogliono due giorni e mezzo ma se…appena sali in vettura il conduttore con voce calda, bassa e ferma ti accoglie con:
“Buenas noches caballero…”
Non puoi fare a meno di sentirti un gran signore ai tempi dell’Orient Express
Donatella… L’oboe, il fado, Venezia e l’Oceano
È la sesta volta che prendo il treno Salvador Dalì da Milano a Barcellona. Stavolta alla carrozza ristorante mi siedo in anticipo ad un tavolo da due, nella speranza che non venga nessuno o in attesa che arrivi qualcuno di interessante con cui parlare, magari una bella Bruxa come l’ultima volta, magari una come Jenny.
Donatella si siede con fare spigliato di chi conosce bene i modi del treno. È di Venezia, sostenuta e tirata, di primo acchito elegante. Il suo approccio è estremamente formale, il discorso si muove, comunque abbastanza fluente, ma rigorosamente impersonale sul filo della ovvietà. Donatella ha qualcosa di strano. Non è una manza da sballo ma comunque di effetto. Appare o vuole apparire elegante e dimessa nello stesso tempo. Signora e contadina con il Burberry che si protegge con il tovagliolo infilato nel colletto come i ragazzi dei collegi poveri di alcuni decenni fa.
Ho l’impressione che non sia quello che vuole far credere. Le cose che dice potrebbe averle lette su qualsiasi giornale: la unicità della loro, nostra Venezia, sulla moneta da un euro che dovrebbe essere di carta e non di metallo, sui disagi dell’autostrada Salerno Reggio Calabria. Le dico che conosco il Veneto e Venezia, che ho fatto l’università a Padova, che ho abitato per alcuni anni a Mira. Lei si riferisce a quei posti con risposte da settimanale di viaggi: la Riviera del Brenta, le ville venete, ecc. ecc. Mi parla più volte di suo marito che è andato in aereo per lavoro e lei lo deve raggiungere, a volte mi dice a Madrid a volte in Portogallo.
Donatella cosa mio combini, dove stai andando, chi sei, cosa stai cercando?
Parla molto, conosce molto bene la penisola iberica e il Portogallo e il fado, mangia poco e per nessuna ragione il pesce o qualsiasi cibo che provenga dal mare. Beve solo vino rosso, si fa portare un’altra bottiglia di vino e poi un’altra ancora. Donatella parla e parla. Parla della musica barocca, del fado portoghese, dell’Alentejo. Delle sotterranee relazioni tra la musica del declinante settecento veneziano e il fado portoghese. Accosta la struggente melanconia dei fadisti, alla struggente melanconia degli adagi di Benedetto e Alessandro Marcello.
Sostiene:
“Non è forse la stessa morte quella della Serenissima Repubblica che sprofonda come un vascello, ignaro della sua fine, nella nebbia e nel fango della laguna, nella nebbia e nel fango della storia?
Ignara e gaudente va verso la morte al suono di feste e lazzi e intrisa di ricchezze sfacciate. Non è come l’impero portoghese che nella gaudente e ignara ricchezza dell’oro e degli schiavi delle colonie vive la sua stessa fine. Come la nave che va e non torna, come la barca dei pescatori che va e non torna, come l’amato che va e non torna, tutto sprofonda nella nebbia e nei concerti per oboe di Albinoni o nei fados strazianti e umidi delle nebbie dell’oceano.
Venezia è un vascello fantasma, il Portogallo è un vascello fantasma, l’oboe è un vascello fantasma!”
Io provo a interloquire ma non ci riesco, mi guarda con occhi severi, intimidatori ma supplici come per dire
“E stai zitto! Stammi ad ascoltare!”
Come se farsi ascoltare da qualcuno sia la sua missione, il suo fardello, la sua professione. Che sia una venditrice di storie o semplicemente una matta, una mitomane, una venditrice di sesso, una rapinatrice, una adescatrice di pipicchiotti come me o che so io. C’è tanta gente matta in giro.
Non so come mai ci sono capitato con il discorso, ma gli parlai della luna che si specchiava o che avrebbe potuto specchiarsi sulle risaie che avevamo percorso con il treno tra Milano e Torino. La luna la fa ammutolire, repentemente si azzittisce, si fa triste. Si alza in piedi. Si avvicina al vetro del finestrino del treno volgendomi la schiena, si china come per specchiarsi sulla superficie del vetro. Non pare interessarsi alla sua immagine, accarezza invece la tovaglia bianca sopra il tavolo con le mani, prima con il dorso, leggermente, solo a sfiorarla, poi con le palme in maniera più intensa e partecipata, ferma quindi le sue mani, le unisce a toccare gli indici e i pollici, le preme decisamente sul tavolo come se dovesse azionare chissà quale interruttore, sollevando il viso, divaricando le gambe, inarcando in avanti la schiena e guardando lontano, verso l’alto. A quel punto ho creduto che stesse per emettere un urlo da lupa mannara. Invece si placa e mi dice senza voltarsi verso di me ma continuando a fissare chissà cosa oltre il finestrino buio del treno, mi dice che nessun marito la aspetta. Che lo ha lasciato per un innamoramento fulmineo verso un uomo eccezionale che poi ha perso.
Rimango stranito. È una balla? E perché me la viene a raccontare a me, che ha appena incontrato per caso su questo treno? La situazione mi appare quanto mai infelice. Ho l’impressione che la signora mi voglia ingannare. È matta o cosa?
Si gira e si siede, mi guarda e si mette a piangere, prima sommessamente e poi sempre più forte fino a farsi sentire dagli altri viaggiatori seduti nella carrozza ristorante. Sarebbe il caso di portarla via da lì, se non altro per evitare quel cinema infernale in cui siamo precipitati. Ormai tutti si girano e ci guardano, lei continua a piangere forte. La porto via più che altro per uscire da quella posizione imbarazzante.
Non so se per spiegazione o per cosa mi racconta la sua storia iniziata “tempo addietro”, durante un viaggio in treno da Madrid a Lisboa. Dice proprio così Donatella: tempo addietro e mi dice che di professione “suonava l’oboe nella nebbia e nel fango di Venezia che sprofondava”.
Il messaggio arrivò nel suo telefonino quando era nella sala d’aspetto delle Grandes Lineas della stazione della RENFE Chamartin di Madrid. Stava aspettando di partire con il Trenhotel notturno Lusitania. Era un bizzarro messaggio al quale non era associato nessun mittente e nessun numero. Usava tenere sempre il telefono in sola vibrazione, quella volta lo aveva nella tasche dei pantaloni. Il telefono vibrò e con lui vibrò ogni sua particella di carne e sangue, e quello scuotimento permeò tutti i suoi sensi e il cervello. Il messaggio era costituito da un lungo elenco di parole in ordine casuale in varie lingue, tutte neolatine: portoghese, catalano, castigliano, galiziano, francese, italiano, solamente due erano in tedesco: liebe e wasser. Quel messaggio la lasciò inquieta, cosa voleva dire? Chi l’aveva mandato? Come poteva essere arrivato li senza mittente? E cosa significava?
Scendendo per le scala mobile che conduce al piano dei binari. Si rese conto che stava succedendo qualcosa di strano e di grande, si accorse di vibrare ancora in sintonia con qualcosa. Sentì il bisogno di girarsi verso la persona che le stava dietro. Fu un incontro fulminante. Dietro di lei, un uomo non alto, vestito di una eleganza che a lei sembrò di altri tempi stava guardando lontano. Aveva una giacca di buona fattura e nel taschino un fiore bianco di carta. I lineamenti delicati, non mediterranei, con i capelli leggermente ondulati, non neri. Le stava dietro e guardava fisso davanti a sé. Sembrava che guardasse molto avanti oltre la stazione e oltre la Castiglia. Il viso delicato, quasi da bambino, aveva un magnetismo particolare. Gli occhi chiari e profondi, propensi allo stupore, erano delle pozze dove affluiva la luce dell’ambiente circostante e il suo interesse. Rimase profondamente rapita di suoi occhi, rimase a guardarli per tutta la discesa fino al piano dei binari fino a quando il bagaglio che la precedeva non urtò in fondo alla scala mobile. Si fermò turbata e stranamente tesa per quello che le era successo. Lui stava salendo sullo stesso treno.
Era stata qualche volta in Portogallo, Lisboa e Sintra, l’Algarve e l’isola di Madeira. Lo trovava un luogo un tantino lento e triste, troppo ancorato al passato, ma ci andava volentieri. In cabina pensò all’incontro di prima, aveva avuto un interesse irresistibile per quel signore, distinto, elegante che dai lineamenti non sembrava portoghese, piuttosto un europeo del nord anche se la statura non era d’accordo. Avvertì sempre più forte il bisogno di rivederlo, di parlare con lui. Si dispose per la cena nella carrozza ristorante. Si preparò accuratamente, con un trucco delicato e con la mise più elegante che aveva: un vestito molto corto e leggerissimo, praticamente trasparente. Sperava di ritrovarlo nella carrozza ristorante e di parlare con lui, magari di scambiarci delle idee. Ma per qualche chiacchiera non c’era bisogno di tirarsi a quel modo.
Lo colse in uno dei tavoli da due, era solo, si precipitò con strepito di tacchi e ondeggi veloci del vestito come un uccello da rapina sul suo bersaglio. Le parlò in italiano:
“E’ libero quel posto, posso sedermi?”
Lui non poteva fare altro che rispondere:
“La prego signora”.
Era portoghese, cantante di fado, abitava da solo in una casa isolata su una scogliera sull’Atlantico nell’Alentejo meridionale. Benché le loro indoli fossero diverse riuscirono sostenere un discorso abbastanza articolato sul Portogallo e sulla musica. Lei vulcanica, vitale, aperta alle chiacchiere, alle esperienze, alla gente, lui tenebroso, introverso, taciturno, magari lento a percepire cosa stava succedendo. Certo, poi, non lo aiutava la sua lingua portoghese anche lei chiusa, bassa a tratti lugubre ma cosi fluida, fluente, liquida. Lo guardava e lo pensava fluido, fluente, liquido. Si sentiva permeata delle essenze di lui, attraversata dalla sua fluidità, completata nelle sue parti mancanti, se lo sentiva addosso come il suo rovescio. Che sia stato lui il messaggio grande quanto un essere umano in carne e sangue, un messaggio mandato da una entità superiore. Se fosse stata credente avrebbe pensato che quell’uomo lo aveva inviato Dio stesso.
Anche lui si accorse della straordinarietà di quel evento, ci fu una tale intesa dei sensi, un tale rapimento e trasporto che nemmeno a Chambery la pelle di lui, morbida e sottile e delicata, la inebriava con un odore tenue di lontano. I suoi baci sapevano di acqua di mare e la trasportavano oltre, il sangue di lui caldo e dolce le pulsava dentro il corpo mentre i suoi occhi chiari e profondi come l’oceano la facevano andare lontano lontano. Fu amore totale per tutto il viaggio e per giorni e giorni e per molto tempo nella casa sulla scogliera. Erano solo loro, nessuno altro. Non esisteva più nulla di altro. Alla sera lei suonava l’oboe di fronte alla maestosità dell’oceano e nella esile impalpabile nebbia che sprigionavano le onde infrante alla base della scogliera. Vivaldi e Albinoni sembravano di nuovo a casa laggiù. Il canto solitario di lui era assolutamente al di fuori delle esperienze normali, il suo canto faceva accapponare la pelle. Una nenia disperata che veniva da molto lontano, dall’oceano infinito, un canto doloroso e irrinunciabile, una musica che creava dipendenza. Faceva ritornare ai i canti delle sirene di Ulisse, ai richiami di creature sovrannaturali e comunque non umane. Lui si scherniva e gli raccontò che quella tecnica vocale l’aveva appresa nella sua terra natale, nell’isola di Faial nelle Azzorre che stanno proprio in mezzo all’oceano Atlantico. L’aveva appreso dalle balene e dagli altri animali dell’oceano e dagli uccelli marini e dal vento e dall’acqua stessa. Non riusciva a fare a meno del suo oceano, non poteva stare tanto tempo lontano dal “suo mare”. Durante tutto il tempo di permanenza in quella casa sulla scogliera di Cabo Sardao, alla sera faceva sempre lunghe immersioni e nuotava sempre più a lungo. All’inizio si metteva sul bordo e guardava l’oceano per tempi interminabili, fermo come una roccia o come una statua di roccia, poi modulava il suo canto che permeava la sera e infine entrava lento nel mare nuotando lentamente e fluido non come gli uomini ma come un essere marino, stava sott’acqua per tempi non comuni e faceva cerchi sempre più grandi e immersioni sempre più lunghe. Lei lo aspettava estasiata, lo amava anche per quelle sue stranezze che lo rendevano unico. Lo attendeva sulla scogliera per ore e quando tornava era appagamento, reciproca sottomissione e servizio, amore incondizionato. Fu un periodo drogato dove il tempo non esisteva e non esistevano i luoghi, solo loro, il loro amore perfetto ed esclusivo. Il tempo non trascorreva e non si poteva misurare, l’unica cosa misurabile erano i gerani che crescevano in maniera esagerata dai vasi che stavano sulle finestre della casa sulla scogliere, gerani che al loro arrivo erano racchi e stiracchiati. Lui diceva che l’amore fa crescere i gerani e le rose. E i gerani erano diventati talmente alti che coprivano ormai tutto lo specchio delle finestre e per poter vedere il mare bisognava guardare attraverso i fiori.
Erano proprio lì dietro la finestra a guardare il mare che turbinava freddo e voluminoso in fondo alla scogliera e lui le disse:
“Quando l’amore avrà fatto arrivare i fiori al tetto, ti dovrò svelare un segreto”.
Quando i fiori arriveranno al tetto? Un segreto?
Il tempo trascorse ancora. Una notte, una notte di luna il canto di lui era ancora più angoscioso, si immerse e nuotò senza battere le braccia e le gambe, si muoveva appena fluido come un pesce o come un serpente marino e filava via sulla superficie chiara dell’oceano senza un rumore. Continuava a cantare il suo richiamo penoso e che divenne doloroso e insostenibile per quanto armonioso e bello. Filò verso il largo e il canto si fece più sommesso finché lentamente non si udì più. Il canto sembrò che fosse finito. Il silenzio e l’assenza di lui la terrorizzarono. Guardava smarrita la piatta distesa illuminata dalla luna rotonda gigantesca, non un suono, non un’onda, non un guizzo. L’assenza le provocò un dolore terribile di essere incompleta e inutile in quel luogo in quel tempo e nel mondo. Per la schiena serpeggiava il terrore di aver perso il suo amore. Si immerse anche lei nell’acqua dell’oceano fino alle braccia che lascio fuori aperte e alzate per farsi vedere dal suo amore. Era gelida ma rimase lì in attesa del suo amore, chissà per quanto tempo. Infine lui tornò come se fosse venuto dal fondo lontanissimo dell’oceano, filò lento sulla superficie oleata dell’acqua fino alla riva. Non un onda, non un alito di vento, non un rumore di animale o di pietre segnava quel momento, nulla, solo quella luna accecante e ferma e fredda. Lui arrivò fino alla riva, vicino a lei. Lo vide. Non aveva più le gambe che erano diventate coda e non aveva più le braccia che erano diventate pinne, la sua pelle era lucida e iridescente di squame. Solo per un attimo riconobbe i suoi occhi profondi come l’oceano che le cantavano il suo amore eterno e il suo angoscioso addio. Si inabissò senza un rumore. L’ultima cosa che vide di lui fu la coda scura dentro a quell’ insipido e odioso grande disco bianco della luna.”
A Barcellona, quando scendo, chiedo al conduttore se avesse visto quella signora con la giacca di Burberry che aveva cenato con me la sera prima
“La musicista di Venezia. E’ scesa a Gerona.”
“Ma l’aveva mai vista prima di ora?”
“No signore. È la prima volta che la vedo.”
1 Da Setùbal a Santiago do Cacem – Km 81
Il cicloviaggio inizia dalla Pousada do Castelo de Setùbal. Scendo velocemente dalla collina fino al porto, devo prendere il ferry per la penisola sabbiosa di Troia, dall’altra parte del grande estuario del Sado. È stupefacente come alcune cose riescono a rimanere tali nel tempo. Incontro lo stesso venditore di orologi e l’uomo dal portamento sudamericano, che vende sacchetti di granchi come cinque anni prima. Il battello parte lento in mezzo ai rumori del porto, tra le gru che ruotano cigolando e le fabbriche dai nomi inglesi. Dal centro della baia, verso nord si ha un gran visione: le occidentali falesie della Serra de Arrabida che si tuffa nell’Atlantico, la collina del Castelo de Setùbal e quella del Castelo de Palmela lampeggiano sotto veloci nuvole a righe che salgono sopra quel mondo a balzi, come tigri. Dall’altra parte invece è una galera: grandi costruzioni piantate in fretta e furia sulla sabbia senza metafisica, e parcheggi e strade…
“E non era ancora niente!”
Oggi quella cancrena è arrivata molto più a sud. Mi rendo conto dell’inutile vezzo di descrivere ora un Portogallo che non è più. Ma io sono testardo e arcaico e se la memoria latita, andrò a spulciare i miei fedelissimi taccuini scritti in una orrenda e cattiva grafia che da sempre mi riconosco.
Quando il ruggito dei villaggi turistici si sopisce è comunque un bell’andare su un asfalto granuloso e chiaro, su basse dune, con il vento leggero e le onde e l’Oceano infinito. Il tempo è buono, si va alla grande. Ma…Subito si manifesta un problema tecnico: il portapacchi anteriore non è stabile, il sistema di fissaggio al manubrio non funziona. Mi arrangio con una camera d’aria di riserva per sostenere malamente il coso.
“Non ho futuro come progettista!”
Le Lagoas de Santo André sono un tantino selvagge per i servizi offerti e per la gente che frequenta la grande spiaggia bianca che le divide dall’oceano. Ci sono due tedesconi tamarri con un grande camper e le loro tedescone sguaiate dentro attillati corpetti a rete e le facce da coguaro.
La ragazza del baretto a Fragata è gentile e la salada de polvo è gran cosa.
Mi fermo all’interno, a Santiago do Cacem di cui ancora non mi ricordo molto: un vialone diritto e la scalinata forse del Tribunal Judicial.
2 DA SANTIAGO DO CACEM A VILA NOVA DE MILFONTES – km 63
La città di Sines è la patria di Vasco da Gama, supremo navigatore portoghese, ma ora Gama è solo raffineria e case di povera gente senza un limite preciso tra le due realtà che assediano il promontorio granitico. Il Bairro Alvarez Cabral è pieno di facce tonde e larghe sotto crocchie unte di capelli, occhi vigili, schiene nere, e matrone dalle panze enormi dentro i sottanoni e le ciavatte. Gama ha una geografia difficile, è un insieme inintelligibile e promiscuo di chimica industriale, officine, strade a quattro corsie, capannoni del porto, case, la torre dell’acquedotto, o parque de campismo, alberghi, residence, il castello e la via acciottolata, terrificante per le mie ruota da corsa da 23 mm, gonfiate a mille atmosfere.
Sines alla fine è solo la piccola Praia Vasco da Gama e un piccolo cocuzzolo di granito.
Cerco un qualcosa per serrare i bulloni del solito portapacchi, trovo in una ferramenta una chiave regolabile, cinesissima e di scarsa qualità. Va un po’ meglio ma…
“È comunque un mago’!”
Abbandono Sines o Gama che sia. Vado lento verso sud, per la spiaggia, sulla stradina malamente asfaltata. A volte il percorso si solleva sul mare, sopra basse scogliere di roccia nera. Le nuvole tigri stanno ancora gniaulando e roteando voluminose sopra il mare, ogni tanto arriva una raffica di pioggia. Pedalo dentro il rombo dell’Oceano che si frange sulle rocce e che permea tutto quel mio mondo.
Ritinha
Porto Covo è un villaggio sopra il bordo dell’Oceano Atlantico, nell’Alentejo meridionale. E’ un piccolo porto a sud di Sines. In estate è pieno di turisti. Ora, ai primi giorni di ottobre, non c’è quasi nessuno. La piazza principale è circondata da casette piccolissime, con le finestre e le porte bordate e colorate alla moda alentejana, di blu, di giallo, di verde e di marrone.
Sembrano case di esseri più piccoli del normale, di persone che vivevano in un altro tempo o le casette del Portugal dos Pequenitos di Coimbra. Percorro lentamente la strada principale acciottolata che dalla piazza conduce alla scogliera. La strada è ricca di bar e ristoranti. Entro in una cafetaria. La maniglia di ottone è un’ala di farfalla posata sull’antico ferro pitturato di verde della porta a vetri che si apre cigolando un poco. Subito a destra il bar. Davanti al bancone che con le sue vetrine illuminate elenca tutti i dolcetti si apre uno spazio con dei tavoli illuminati dalle finestre aperte alla strada. Mi siedo al tavolo tanto da poter guardare la via fuori e il resto del locale. Chiedo un cha preto com bolachas. Il luogo è tranquillo e caldo. La radio, sintonizzata su una stazione che conosco bene (Radio Clube Portugal), in sottofondo, manda delle lente ballate in inglese di anni prima. Il locale si allunga verso l’interno ed occupato da un minimercado senza nessun compratore tra gli scaffali. Mi sento a mio agio dopo questi quaranta chilometri con la bicicletta. Prendo dalla borsa il mio taccuino degli appunti. Per la strada ha piovuto un poco e mi sono bagnato, ho bisogno di asciugarmi e di curare le mie ferite. Lo posso fare benissimo qui in questa cafetaria – minimercado di Porto Covo – Baixo Alentejo. Il the è molto caldo. Aspetto, e come mi è capitato altre volte, lo verso sul tavolo e bagno anche il mio taccuino. La ragazza che aveva preso l’ordinazione e me l’aveva preparato sorride e mi guarda divertita, io ricambio il sorriso e l’interesse. Gli dico che mi capita spesso. Viene ad asciugare il tavolo rotondo di metallo lucido e se ne ritorna dietro al bancone del bar.
Rita fa tutto dentro quel locale. Quando entra qualcuno va al bar e prepara quello che c’è da preparare se no sta seduta su uno sgabello altissimo, dietro la cassa del minimercado. Non vengono molte persone né a fare acquisti al minimercado né alla cafeteria. Rita è graziosa e giovane, con i capelli quasi ricci, quasi rossi e con una voce leggera e sottile.
Ad un tavolo vicino al mio stava già seduto un signore che sembra divertito della mia goffaggine e forse anche del mio abbigliamento con i calzoni corti fino a sopra il ginocchio. Lo saluto e mi schernisco, non facendo finta di non essere il pagliaccio che sono. Lui invece è abbastanza elegante e mi sembra serio. Stava leggendo un libro e sul tavolo in ordine sparso c’erano dei giornali, quotidiani e settimanali, una tazza vuota di caffè, una bottiglia di Super Bock e un bicchiere ambedue vuoti. Il libro che tiene in mano è la traduzione portoghese di un noir di Robert Wilson: Ultimo acto em Lisboa. Ricambia il saluto con una tale disposizione che mi dà l’idea di uno che voglia parlare. Inizia col dire che aveva notato l’orologio che porto al polso.
“Vedo che ha un Grosse Fliegeruhr.”
Continua senza darmi tempo di dire alcunché:
“Non se ne vedono tanti in giro, anche per il suo peso e la sua dimensione fuori dal normale. È un orologio impegnativo da possedere e da indossare tutti i giorni. O Senhor lo porta tutti i giorni, visto che anche adesso che va in bicicletta lo indossa al polso destro. Già non lo si potrebbe indossare al polso sinistro con quella enorme corona che darebbe molto fastidio”.
Parla in portoghese, un portoghese lento e facile nella costruzione e nei vocaboli tanto che lo capisco perfettamente. Non riesco invece a riconoscere cadenze o inflessioni che mi permettano di capire di dove sia. Il romanzo che sta leggendo, di autore inglese, è una storia complessa e truce ambientata in Portogallo, a Lisboa e dintorni ai tempi nostri ma che trae le origini nella Berlino nazista della seconda guerra mondiale e si intreccia in eventi tra le Beiras e il regime Fascista di Salazar tra depravazioni sessuali e prepotenze del potere e della stupidità e della ignoranza umana. I quotidiani sono portoghesissimi, O Publico e O diario de Noticias, Le riviste, almeno dai titoli delle prime pagine, mi sembrano scritte in tedesco o comunque in una lingua del nord Europa
Continua:
“Conosco molto bene quel orologio, e lo possiedo da molti anni, lavoravo alla IWC. Sono Karl, Karl Schellemberg di Schaffhausen. O Senhor forse non lo sa, ma questi orologi accomunano i loro possessori, sono talmente singolari che i loro possessori non possono non avere delle profonde essenze in comune.
Ne vuole una prova?
Cosa è venuto a fare in ottobre in questo posto. Sopra una scogliera sull’Oceano Atlantico?
O Senhor non è di qui. Dall’aspetto sembra spagnolo o italiano e se non mi inganno è un assiduo frequentatore del Portogallo. Cosa viene a fare in questo Portogallo, in questo angolo di Portogallo così lontano dall’Europa e dal mondo di oggi?
Anche io sono un assiduo frequentatore del Portogallo. Trovo che noi svizzeri siamo attratti particolarmente dal Portogallo. Siamo così compressi in mezzo all’Europa, compressi dalle culture Francese, Italiana e Tedesca. Specie noi della Svizzera di lingua tedesca e noi di Shaffhausen, ha visto che la città è praticamente circondata dal Land tedesco del Baden-Württemberg. Abbiamo bisogno di una fuga, di uno spazio aperto, e qui esiste quello spazio aperto, spazio culturale, spazio vitale e spazio in senso stretto. Qui non c’è più nulla, solo mare e acqua. Almeno verso occidente non c’è più nulla.
Non è un caso che abbia incontrato lei qui in questo villaggio lontano dalle nostre case in un paese che ambedue abbiamo amato e amiamo. Ho il bisogno di metterla a parte di quanto mi necessita di esternare ad un individuo che credo in sintonia con il mio sentire. Io non so quali siano i motivi che la spingono in questa terra. Me li potrà dire se vuole. Io ho una impellente necessità di dirle i miei. Non credo poi di avere molte altre possibilità di comunicare queste conclusioni.”
Sarà una tassa che tanta gente si ostina a raccontare quello che vuole. Sarà per via delle mie orecchie a sventola che sembrano antenne per captare balle e storie e rogne di ogni genere.
Karl macina la sua confessione senza alcuna esitazione.
“Oltre l’amore e l’interesse che le ho appena detto esiste un motivo più contingente, abbastanza pressante. Devo trovare il posto ideale dove suicidarmi. Sono anni che percorro il Portogallo per trovare il posto migliore, dove ci sia la giusta scenografia, la giusta esteticità del paesaggio che comprenda l’esteticità del gesto. Un luogo dove si abbia un giusto interesse e una accettabile cura delle autorità. Il Portogallo è un buon luogo per il suicidio. L’ambiente è malinconico che basta, serio che basta, è un luogo dove si può morire con eleganza e con una partecipazione professionale e riservata della gente di qui.
Ha notato quante imprese di pompe funebri esistono! Solo a Lisboa ce ne sono 121 nell’elenco telefonico, al contrario di 18 nell’elenco di Roma che è anche tre volte più grande e solamente due di Schaffhausen che ha 33700 abitanti. Anche nelle città più piccole o nei paesi sono così ben dotati. Ha notato i funerali qui in Portogallo non sono delle rappresentazioni teatrali come quelle del vostro sud, non sono mere formalità amministrative come i nostri.
Ma questo rimane solo il contorno, la parte difficile è la ricerca del modo e del luogo e la struttura del suicidio. L’eleganza del gesto è necessaria, uno non si può suicidare come un pipicchiotto qualsiasi o affogando in mare o sotto un treno o sbattendo con la propria auto contro un muro o un albero. E necessario che sia risparmiata la visibilità del corpo se non la sua integrità. Se affoghi in mare rischiano di non trovarti più e magari di non essere morto ma solo disperso. Sotto il treno non sei più riconoscibile, con la macchina altrettanto. La cosa più elegante sarebbe il volo con l’unico, non marginale, inconveniente dell’impatto dopo il volo. L’impatto non è elegante affatto. Di luoghi adatti al volo ne ho visti a decine, famosissimi a tutti i turisti e a tutti i portoghesi.
L’elevador de Santa Justa a Lisboa sarebbe il più centrale e anche il più mediatico. Li schiantato sull’elegante mosaico bianco e nero al centro della Lisboa pedonale, tra i turisti di tutto il mondo e i portoghesi in aria di shopping, sotto l’obiettivo necrofilo di migliaia di telecamere digitali, di palmari, di furbotelefoni, dentro le sinusoidi delle onde e i singhiozzi della rete, potrei introdurmi con la forza in un reality show personale in molte case d’Europa e sotto lo sguardo superficiale di milioni di persone, ora che tutta l’Europa sembra intorpidita dalla stupidità della televisione e dei social net.
Dai ponti di Porto il volo di circa settanta metri ti lascia troppo tempo per pensare e poi vai a finire nell’acqua del Douro, potresti anche non morire subito o non morire affatto o magari perderti nell’acqua del fiume prima e poi del mare e poi venire ripescato come un marinaio o un naufrago qualsiasi o uno che è caduto nel fiume per incidente.
Dalla Torre di Belem sarebbe troppo pretenzioso, da sfacciati. Dal Cristo Redentor di Almada sarebbe irriverente.
L’acquedotto delle Aguas Livres sarebbe un colpo sicuro ma non è affatto esclusivo, decine di suicidi mi hanno preceduto.
La cosa dovrebbe avere risonanza anche in Svizzera e anche a Schaffhausen dove ancora vive Geraldine. Sì, si dovrebbe morire meglio, con un certo eroismo dei giorni di oggi, magari dentro un attentato, addirittura un attentato islamico ma è troppo complicato e pochissimo estetico ed elegante trovare i contatti.
Cadere con l’aereo; non si può, coinvolgere centinaia di persone nel progetto, non è giusto e nemmeno sostenibile. Però posso farmi investire da un aereo al decollo sulla pista dell’aeroporto di Portela o cadere dalla barca dei turisti che sta risalendo la chiusa della diga del lago di Carrapatelo sul Douro.
O forse non dovrei scegliere un posto non universalmente noto, ma che abbia una certa valenza per chi deve leggere il messaggio: Geraldine, il ragioniere, il personal trainer, ma cosa hanno in comune il Portogallo e la signora Geraldine Aubry e il ragioniere e il personal trainer?
Perché non mi domanda?
Perché la morte?”
Fa tutto lui. Si fa le domande e si risponde. Non posso fare altro che stare lì con la faccia da ebete a gingillarmi con l’elastico della Moleskine. Karl continua:
“Diciamo per amore, per amore come nei drammatici romanzi del secolo scorso o per quelli del 800. Diciamo per uno statico amore, per un terminato amore o infine per il rifiutato amore.
Se la tenga per sempre la sua alta grande e depilata figa, Geraldine, si tenga quel suo basco nero e il profumo di Dior e le sue meravigliose tette, le sue Lune del Paradiso. Si venda a chi vuole, regali le sue elegantissime caviglie, le sue magiche ginocchia. Regali la sua bocca al suo amico ragioniere. E sì che per anni mi aveva convinto a depilarmi, diceva che c’era più complicità nell’amore.
Lei mi dirà che non è un comportamento da svizzero tedesco. Mi dirà che gli svizzeri tedeschi non possono essere gelosi come i siciliani della letteratura popolare, ma i tradimenti della signora Geraldine Aubry sono andati ben oltre la letteratura popolare. Geraldine mi ha straziato fino all’esaurimento dell’energia necessaria a continuare a generare vita e amore per gli altri.”
Io muto come una tomba di marmo bianco di Estremoz.
“Il ragioniere. Iniziò col ragioniere.
Io lo chiamo ragioniere ma lui veniva nella nostra casa per fare il consulente finanziario. E quel pomeriggio Geraldine si stava bevendo il ragioniere proprio sul divano del salotto di casa nostra. Sul divano davanti alla grande finestra che dava sul giardino che tenevamo a piante basse per permetterci di vedere il Reno.
Abbiamo dato il divano in beneficenza ad Oxfam House ma Geraldine continuavo a perderla. Ormai l’avevo persa. Ci separammo e poi vendemmo la casa sul Reno. Ma lei continuava ad ostentare i suoi amanti e continuava a farmi partecipe dei suoi incontri duri e crudi.
Il suicidio col botto in rete la farà sentire un po’ in colpa o magari sarà solo lo scappare dalla tortura di saperla ferocemente sottomessa a dei pipicchiotti qualsiasi che mi stava uccidendo. Io che la trattavo sempre come una regina ed un essere superiore e ora saperla così sottomessa come una zoccola da strada è diventata una umiliazione troppo grande per Lei e per me che ero e sono il suo affezionato cavaliere e scudiero.
Io lo trattavo con tenerezza e riverenza e ora si fa sbattere dai peggiori energumeni. Perché? Per farmi dispetto? O io non centro. No, non centro è stata sempre puttana.
E’ solamente da qualche tempo che mi sono fermato qui nella costa del Baixo Alentejo, ci sono belle scogliere, ripide e strazianti su cui morire e essere poi ritrovati dalla pietà degli altri. Ho preso una casa in affitto a Cavaleiro, appena all’interno di Cabo Sardao, non potevo vedere l’oceano se no mi convinceva a non suicidarmi più. Giorno dopo giorno ho perlustrato la costa a sud della mia casa fino a Carrapateira e giù fino a Sagres e a nord fino a Sines, più a nord le scogliere finiscono. Le migliori sono nella costa Vicentina da Cabo de Sao Vicente. Alla ponta de Atalaia. Ma anche Cabo Sardao va bene, è anche vicino a casa. A Zambujera do Mar avrei molto pubblico come a Vila nova de Milfontes…”
Solo allora Ritinha si avvicina e lo cinge da dietro con le braccia, lui si gira e le dà in bacio sulla fronte. Rita lo tiene abbracciato e da dietro mi guarda molto negli occhi, il suo sguardo penetrante passa attraverso i miei occhiali rossi che filtrano tutto ma non la magia di Ritinha, e mi dice
“Lo vedevo spesso che si aggirava curioso sul ciglio della scogliera, e guardava oltre, sembrava non nel suo posto con quei vestiti di una eleganza discreta e tecnica. Poi alla fine mi ha detto del suo programma, Gli ho parlato e l’ho guardato negli occhi, nel profondo degli occhi come certe volte so guardare e ora ha deciso di non suicidarsi più e mi fa compagnia qui al mini mercato di Porto Covo. Sappia che le canzoni non vengono a caso nella radio e le persone non vengono a caso in giro per il mondo. Sappia che questa storia non la raccontiamo a tutti quelli che passano di qua.
Sto ora adesso pedalando verso Vila Nova de Milfontes, dalla ruota posteriore, nelle discese e comunque quando non pedalo, avverto il ticchettio della ruota libera, è un discreto e privatissimo metronomo ai miei pensieri, lo preferisco a quelle giapponesi, silenziose. Non c’è più il rombo dell’Oceano di prima, ma per tutto il tempo mi rimbomba nella testa la canzone che avevo ascoltato nel minimercado. Have I Told You Lately di Rod Stewart o di Van Morrison, non mi ricordo chi fosse a cantarla e che Ritinha faceva risuonare sommessa quando ballava con Karl nel mini mercado di Porto Covo. Per tutto il tempo rivedo attraverso il vasto cielo gli occhi profondi, quasi da gatto, sicuramente da bruxa, di Ritinha.
“Have I Told You Lately that I love you? Ritinha.”
3 DA VILA NOVA DE MILFONTES A SANTA CLARA A VELLA – km 80
L’estuario del Mira è largo, lo supero su un grande ponte, cerco percorsi litoranei ma non li trovo, inizia la mia lunga storia di inadeguatezze… Ritorno sulla Estrada Nacional. Ad ovest del borgo di Cavaleiro, oltre il faro bianco e rosso, solo mare. Non mi rimane che sprofondare nell’Oceano come le rocce scure di Cabo Sardao. O… Diventare un gabbiano.
“E che ci vuole?”
Abbandono malamente la bici sul sabbione, corro verso il mare con le braccia larghe, urlo a becco aperto…
“uma gaivota voa no ceu azul
Chia, branca,
no mar azul
até ao fim do mundo.”
“Non è così facile!”
“Sarà perché è la prima volta?”
Mi fermo sul bordo trafelato.
Il rapimento del selvatico svanisce assieme al fiatone, ritorno al contingente. Ho interesse a salire alla Serra de Monchique, al confine tra Alentejio e Algarve, ultimo plutone dell’allineamento che dall’ isola di Berlanga passa per Sintra e Sines. Mi dovrò dirigere verso Odemira. Ho solo la carta stradale Michelin, mi perdo e chiedo. La mia inadeguatezza risulta evidente anche ai portoghesi che in alcune occasioni, a dir poco sorridono (se non si rotolano in terra singhiozzando) di come sono messo. Con quella bicicletta improbabile e con un’altrettanto improbabile tenuta da ciclista fatta di calzoni corti, da muratore, allungabili per gli usi “da civile”, gli occhiali da matto con le lenti rosse e, al posto del casco, un grande cappello di sughero, a larghissima tesa.
Odemira è un paesone dell’Alentejo con troppe banche, troppo colorate e troppo moderne rispetto alle antiche e canute teste che popolano le rosse panchine della piazza. Raggiungo il grande lago artificiale di Santa Clara. L’edificio di servizio ai lavori di costruzione della diga è stato trasformato in albergo di Stato. A quei tempi era normale, ora tutte le Pousade “di diga”, troppo portoghesi, sono state declassate. Ora rimangono solo i castelli e i conventi.
Beatriz Pais
“Sono la nipote, Martim Pais, potrò vestirmi come mi pare in questo paese che ancora si chiama Portogallo. Sono ormai trent’ anni che questo paese è in mano ai comunisti, ma il nome non lo hanno ancora cambiato. Questo paese è ancora il Portogallo e il nonno del nonno di mio nonno è un padre del Portogallo. La mia famiglia ha fatto il Portogallo. Sono Beatriz de Mello Pais. Non posso mica essere trattata così da una stupida cameriera. Non sarà mica una stupida cameriera a dirmi come si deve portare una signora appartenente ad una delle famiglie più nobili del Portogallo”.
Il ristorante è pieno in quella sera del 5 ottobre festa nazionale. La Pousada de S. Clara è piena di ospiti. Solo portoghesi ad eccezione di me e di una famiglia di inglesi.
I commensali sono tutti molto riservati e non sembra che siano attenti alla scenata. Le due coppie di signori anziani che occupano il tavolo vicino al mio continuano a chiacchierare tra loro. La giovane mamma in elegante abito da sera scuro e scollato continua ad andare su e giù davanti alla vetrata che dà sulla grande terrazza. Ha in braccio il suo piccolissimo figlio e tiene con la mano destra il biberon. La sorellina un poco più grande sta seduta composta con il padre. L’altra mamma, tutta tirata dentro i suoi pantaloni leopardati attillatissimi, cerca di sfuggire alle mire di suo figlio piccolo che la chiama in continuazione. La coppia seduta vicino al camino acceso è impegnata nel rito dell’assaggio del vino con il cameriere che lo stappa e depone il tappo sul piattino, lo versa all’uomo e aspetta la risposta impettito e con la bottiglia in mano, con l’etichetta rivolta verso chi deve assaggiare il vino.
Fuori il lago è tranquillo come il paesaggio di boschi di eucalipti e conifere che bordano le acque e coprono le placide colline di questo Alentejo del sud, così stranamente verde e così stranamente poco drammatico. In fondo qui si viene per trovare la tranquillità e magari per nascondersi un poco dalle mondanità di Lisboa o di Porto, o anche per sfuggire ai turisti che riempiono il resto dell’Alentejo, o per sfuggire al roboante Algarve, che sta proprio qui sotto oltre la Serra de Monchique.
Beatriz, continua nella sua arringa, non si cura della poca attenzione che i commensali le dimostrano e le fanno credere di dimostrare:
“Oggi è il 5 ottobre festa nazionale del Portogallo, poteva essere la ricorrenza della riscossa contro i dominatori stranieri e invece è la festa della nostra grigia Republica Portuguesa.
Ma ecco come festeggia la mia gente, con la testa bassa di sempre, ecco i miei pavidi portoghesi. Tenete la testa bassa, tenete gli occhi fissi sui vostri piatti, sulle vostre povere sopas, sulle vostre sardinas e sui vostri bacalhaus mentre gli stranieri si mangiano ancora una volta il nostro Portogallo. Sono tornati ancora gli stranieri in combutta con il governo di comunisti che fa comandare i camerieri”.
Beatriz è grassa e orribilmente conciata. Ha un tatuaggio sulla gamba destra e sul braccio sinistro, porta i capelli ossigenati, bianchissimi, e occhiali rettangolari con la montatura di plastica spessa e colorata di bianco. La gonna di tela jeans cortissima, le lascia in evidenza le gambe grosse, la camicetta di un tessuto leggero, bianco e troppo trasparente, non copre i seni, nè solidi nè floridi, rivolti all’esterno, troppo evidenti senza il reggiseno e sotto quel tessuto leggero e trasparente.
La cameriera passa e va senza replicare. Il marito sembra anche lui non curarsi della moglie. Magari è abituato alle intemperanza stilistiche e anche alle bizzarrie comportamentali della sua signora. Probabilmente non è tutto a posto nemmeno lui. Non si sarebbe sposato con un diavolo del genere e non se ne andrebbe in giro per il corridoio del secondo piano, quello delle camere, muovendo il collo come un piccione che cammina in piazza. Il marito non ha nome, ha una corporatura normale ed è vestito completamente di nero a partire dalle scarpe grandissime e di pelle nera lucidissima, di foggia classica con le stringhe sottili, ai pantaloni con la piega, stretti in fondo e anche corti che lasciano a vista le calze nere, alla maglia attillata con il collo a lupetto nerissima e lucida. Gli sproloqui della moglie lo oltrepassano e lo scavalcano, apparentemente indenne. Lei continua:
“Guardate l’Algarve, che con tanta fatica e sacrifici i nostri valorosi antenati hanno liberato dai mori. Guardate l’Algarve cosa è diventato. La puttana portoghese dell’Europa. La grande zoccola lusitana, sempre con le gambe aperte, che non parla più la sua lingua. Guardate le insegne dei negozi, guardate le liste dei ristoranti. Entrate in un negozio a chiedere qualcosa nella nostra lingua portoghese, vi risponderanno: sorry, vi diranno che non hanno capito.
Sorry.
Inglesi comunisti. Maledetto il Marchese di Pombal, schiavo dei comunisti, che ha fatto firmare al nostro valoroso re il trattato di Meuthen. Andate a Lagos. Da lì è partita la sacra spedizione di Dom Sebastiao alla conquista dell’impero d’Africa. A Lagos, ora, il miglior ristorante delle guide è un ristorante danese. Andate in giro alla sera per le strade di Albufeira, Portimao, Silves dove orde di norvegesi, svedesi, finlandesi, tedeschi, olandesi e inglesi lasciano milioni di lattine di birra. Guardate la costa imbrattata per sempre da grattacieli di laido, grigio cemento, da resorts, campi da golf, beauty farms. Cosa ci rimarrà nel tempo. Nulla, solo le vie ricolme di lattine di birra, di scatolette di plastica del fish and chips e preservativi usati.
Dov’è il Portogallo di mio nonno, dove sono le nostre sfere armillari, le nostre insegne, la nostra bandiera coperta ormai da quella inglese, americana o da quella blu con le stelle gialle di quei comunisti, camerieri, cocchieri della Comunità Europea?”
La sala rimane ingessata, muta, assente. Nulla si muove, nulla si sente. Solo lo sciabordio dello scarico del troppo pieno del lago e poi l’inno nazionale portoghese cantato piangendo da Beatriz. Nemmeno i bambini danno segni di reazione al loro inno nazionale.
Heróis do mar, nobre povo,
Nação valente, imortal,
Levantai hoje de novo
O esplendor de Portugal!
…
Tutti noi sembriamo come gli uccelli in fila sui fili prima di partire per il sud o i vecchi che stanno seduti, appesi a grappoli, giù a S. Clara a Velha sull’incrocio con la strada principale, o alla fermata della corriera o al parcheggio dell’unico taxi o al distributore di benzina. File e grappoli di vecchi che il mondo sovrappassa, file e grappoli di vecchi che stanno ad osservare il mondo che, per caso passa di lì.
Ma non partiranno mai quei vecchi, non sono come gli uccelli sul filo!
Così siamo noi lì in quella sala, come quei vecchi che non partiranno mai. Stiamo ad ascoltare, facendo finta di non ascoltare, una matta che parla, canta, piange, urla sopra le nostre teste e le nostre certezze di uomini e donne tranquilli, corretti, rispettosi delle leggi e delle tradizioni, rispettosi degli altri e delle opinioni degli altri. Così rispettosi degli altri e delle opinioni altrui che non ce ne importa nulla.
Chi è Beatriz? Cosa fa lì con il suo strano marito?
Finalmente di nuovo il silenzio, ora solo il lago si muove, e i vento sulle alte piante attorno alla collina su cui è costruita la Pousada. Beatriz torna a sedere in silenzio, ancora tremando, piangendo e guardando il marito, cercando in lui un consenso che non arriverà.
Quel matrimonio non fu mai nè benedetto nè approvato dalla famiglia di lei, una delle famiglie più importanti del Portogallo. Il nonno del nonno del nonno di Beatriz aveva veramente fatto il Portogallo. Aveva guidato la cavalleria portoghese in una pazza e disperata carica contro i castigliani, aveva dato fervore divino e ai cavalieri portoghesi. L’esito della battaglia che stava andando per il peggio, fu rovesciato e i castigliani furono sconfitti, inseguiti, fatti a pezzi, catturati e venduti come schiavi ai mori. Con quell’eroismo il Portogallo poté essere il Portogallo. Il re elevò ai massimi livelli il rango della famiglia, le concesse ricchissimi feudi e estesissime terre e castelli e privilegi che ancora mantiene nel Minho e nel Tras-os-Montes e attorno al fiume Douro. La famiglia, in seguito, fu in prima linea nella reconquista e nella cacciata dei mori dal resto del paese e acquisì ancora terre e castelli e privilegi nelle Beiras e in Alentejo e in Algarve. L’epoca dei viaggi vide la famiglia arricchirsi a dismisura prima con il commercio degli schiavi, delle spezie e poi anche, con le piantagioni di canna e di caffè, con le pietre preziose e l’oro di Sao Tomè e Principe, della Guinea, del Brasile. Nel 900 gli affari gli interessi della famiglia si estesero al petrolio e ai diamanti dell’Angola e agli smeraldi del Mozambico e alle banche in territorio metropolitano. La perdita dei territori ultramarini e la fine delle guerre coloniali hanno fatto registrare una relativa statica nell’arricchimento e nel potere che sono state considerate dalla famiglia come degli eventi di drammatica crisi e di perdita di prestigio e visibilità. Un periodo che ha segnato la storia della famiglia. Ora, la crisi è superata, e la famiglia continua a essere una delle prime del Portogallo, il suo potere le deriva sia dalla vecchia ricchezza terriera con quinte e produzione di Porto (tra le poche non in mano agli inglesi), del Moscatel de Setùbal e sughero e olio di oliva, ma anche da attività e interessi moderni e come le telecomunicazioni, i servizi finanziari e il turismo. E padrona assoluta di una delle più grandi banche del Portogallo, ha partecipazioni in molte altre, possiede alberghi e villaggi turistici e campi di golf e persino campeggi in Agarve, Sao Tomè, Cabo Verde, Mozambico, Sudafrica e in Brasile. Recentemente la loro società di telecomunicazioni ha lanciato un’ offerta pubblica di acquisto su Portugal Telecom S.A.
La storia di Beatriz è molto conosciuta in tutto il Portogallo e ha tenuto le pagine dei giornali pettegoli per numeri e numeri. Me lo sta dicendo una signora molto chiacchierona al bar, con minuzia di particolari, agganci storici e pettegoli. La signora è una dei quattro che cenavano al tavolo vicino al mio. Suo marito ha una fabbrica di scarpe vicino a Guimaraes, suo marito è del Minho ma lei no.
“Quelli del Minho sono troppo seri, sono del nord, sanno fare tutto loro, lavorare, pregare Dio, perfino parlare. Loro hanno inventato il portoghese che tutti parliamo, loro hanno fatto il Portogallo che tutti viviamo, loro hanno cacciato i mori dal sud e colonizzato il sud con la loro civiltà del nord. Loro sono il Portogallo e noi siamo ancora Mori”.
Continua veloce, ora di lei e ora di Beatriz:
“Loro sono seri. Io sono dell’Algarve, sono una del sud, una chiacchierona. Sappia. La nostra fabbrica prima faceva scarpe anche per i fratelli Clarks e per quelli di Timberland. Ora fanno tutto in estremo oriente ma non ci lamentiamo. Beatriz è la spina nel fianco della dinastia, il caso sfortunato che non gli permette di raggiungere la perfezione divina.”
Fin da piccola Beatriz aveva dimostrato i suoi problemi intellettivi, non gravi, ma inauditi e improponibili in quella famiglia. Nessuno di quella famiglia poteva essere meno che il massimo. Fu subito isolata, nascosta. Non la scuola con gli altri ma insegnanti a casa, non il liceo, non l’università. Non sarebbe riuscita a farla. Nessun amico con cui giocare, parlare, sognare, nulla.
Fu sempre tenuta nascosta al mondo, non frequentò la mondanità a cui apparteneva, nulla. Visse praticamente con la nonna materna. Una vecchia arcigna, misantropa, autoritaria e acida in un palazzo del quartiere di Lapa a Lisboa. La permanenza forzata in quella situazione e l’educazione di sua nonna rovinò definitivamente Beatriz. Magari integrata in una famiglia normale, con amici normali e con le attenzioni di cui aveva bisogno Beatriz sarebbe riuscita ad avere una vita normale. Ma lei era chiusa dentro quella famiglia, così troppo portoghese. La nonna, aveva il vezzo di andare vestita alla moda delle contadine delle Beiras, per quanto si facesse fare i vestiti di stoffe pregiate erano sempre e comunque neri e tagliati come quelli delle contadine dalla Beira. La nonna costringeva anche Beatriz a quel castigo. Da ragazza Beatriz non era brutta nè grassa, ma forse per ripagare la nonna e la famiglia dei torti subiti diventò brutta, grassa e antipatica e dispettosa. La madre, il padre e i suoi fratelli l’avevano praticamente abbandonata a quella megera vestita di nero in quel palazzo da cui non usciva mai. La sua memoria era solo sua nonna vestita di nero e quel palazzo. Al raggiungimento della maggiore età Beatriz si conquistò la sua autonomia. Un po’ per la sua voglia di rivincita un po’ per la poca intelligenza si trovò a girare per Lisboa con vestiti assurdi. Disse:
“Proprio come quelli di stasera”.
Si ficcò in situazioni sempre più imbarazzanti a volte coperte e attutite dal potere della famiglia. Era sempre sulle prime pagine dei giornali pettegoli. Praticamente si comportava da ereditiera stupida, quello che realmente era. Stava sputtanando sia l’onore sia le sostanze della famiglia. A quel punto la famiglia tentò di interdirla e di farle togliere la capacità di intendere e di volere ma per quanto influente e connessa a tutti poteri costituiti non riuscì in quell’ intento, anzi alla fine del procedimento Beatriz tirò fuori dal cilindro il suo coniglio bianco: quello strano marito.
Il matrimonio fu il suo capolavoro. Alla fine di un periodo di comportamenti a dire poco picareschi, e a dispetti acri, si accordò con la famiglia. Pretese che sua madre suo padre i suoi fratelli e tutti i parenti partecipassero al suo matrimonio in pompa magna alla chiesa del Paço National de Mafra. Il matrimonio fu una farsa improbabile, con tanto di decine coppie di paggetti vestiti di rosa e di azzurro a spargere fiori sulla piazza e dentro la chiesa al passaggio del corteo. Lei arrivò, accompagnata dal padre con un’ automobile d’epoca della Citroen di colore bianco. Tutti i suoi parenti arrivarono a bordo di automobili d’epoca della Citroen, tutte rigorosamente bianche. Beatriz aveva un vestito da sposa bianco con lo strascico, leggero e trasparente che non risparmiò a nessuno la sua estetica non adeguata. Quello stralunato del marito arrivò da solo su un cavallo nero, senza sella, vestito completamente di nero.
“Proprio come ora!”
Mi confermò in tono più alto la signora. Non aveva nessuno che lo accompagnasse. Beatriz scelse Mafra come simbolo. Si mise poi a descrivere Il Palazzo di Mafra e la fine dei re del Portogallo:
“O Paço National de Mafra è la più grande costruzione della penisola iberica, l’ultimo palazzo abitato da un re del Portogallo. Il deposto re Manoel II ci abitò solo una notte prima di imbarcarsi da Ericeira per fuggire in esilio a Gibilterra e in Inghilterra. Il padre e il fratello erano stati ammazzati poco prima a Lisboa. Re Carlos non era male e poi era anche un bravo pittore.”
La informatissima signora finì la sua concione confidandomi che i termini dell’accordo tra Beatriz e la sua famiglia non vennero mai saputi nemmeno dalle gole più profonde del pettegolezzo lusitano. Dopo il matrimonio se ne andarono in Mozambico per due anni, quindi in giro per il vecchio impero portoghese: Brasile, Angola, Capo Verde, S. Tomè. Ora sembra che si siano stabiliti da qualche tempo a Madeira. I loro passaggi in Portogallo sono molto ridotti, forse è questo uno dei termini dell’accordo, ma ogni tanto saltano fuori e il cinema è sempre assicurato.
4 DA SANTA CLARA A VELHA A CALDAS DE MONCHIQUE – KM 43
La salita inizia quasi subito, lunga e costante fino al “valico”. È un magone e non ho nulla da aggiungere. La piazza di Monchique è guarnita da moderni azulejos a colori vivacissimi e dispone del wi-fi ma la cosa che mi è risultata di maggior impatto è la presenza di due veri cicloviaggiatori francesi, beatamente seduti al ristorante all’aperto e con due vere biciclette da viaggio appoggiate una sull’altra al muro bianco. Grigie, bellissime, con i portapacchi stabili e borse stabili e con l’esagerata tecnologia e lusso di un piccolo specchietto rettangolare fissato chissà come sul manubrio. Io precipito ancora più profondamente nel baratro dell’inadeguatezza. Mi accorgo che:
Quello del Cicloviaggio è un Vastissimo Mondo da conoscere!
Non mi fermo, mi vergogno come un ladro, sperando di non essere notato, pedalo guardando basso sotto il mio cappello di sughero marrone e dentro i miei calzoni da muratore. Sarà per quel trauma che ancora oggi, acquistando bici su bici, sto inseguendo un riscatto? Mi fermo solo sette chilometri dopo, a Caldas de Monchique e sono stato anche fortunato. La Serra sopra e l’Oceano sotto hanno combinato un singolare clima subtropicale con palme e calda, calma e fitta vegetazione umida dalla quale gorgoglia l’acqua termale in cascatelle e ruscelli. Alla Fonte dos Amores ci sono panchine e tavoli di granito, silenzio e caldo, viene poca gente a prendere l’acqua con le bottiglie di plastica da cinque litri. Mi stendo su un muretto, anche lui di granito. Mi sta venendo sonno e non ho alcuna intenzione di evitarlo.
5 DA CALDAS DA MONCHIQUE A ALJEZUL – KM 76
Era mia intenzione scendere verso sud, verso la baia di Lagos ma l’incontro con Beatriz mi ha fatto cambiare idea. Torno un poco indietro in salita e prendo una strada verso ovest che rimane bellamente in costa per un poco e poi mi infilo di gran carriera in discesa fino a bianco castello arabo di Aljezur. Arrivo troppo presto, dopo soli 33 chilometri di quasi sola discesa. Il richiamo dell’Oceano, che non vedo da meno di due giorni, si fa pressante, seguo la sponda nord della Ribeira da Cerca fino alla Praia de Amoreira.
La spiaggia è larga e bordata da lunghe dune, il rumore dell’Oceano e le sue schiume bianche mi investono senza dramma, è tutto tranquillo e famigliare, anche l’odore delle sardinhas e l’odore delle stesse erbe selvatiche dell’Appennino della Media Marca. Il fiume serpeggia largo, caldo e azzurro, a volte tra canneti e stagni fino all’Oceano di un blu profondo. Non c’è limite alla bellezza di questo posto. L’unico cruccio è di essere da solo e non con chi amo.
Dall’altra parte del fiume si eleva un basso promontorio che protegge la Praia de monte Clèrigo. Per raggiungerla devo tornare indietro fino ad Aljezur e poi seguire una bellissima strada a sud della ribeira. Dal bordo del promontorio brillano verso la spiaggia in basso vapori di sale contro la luce del sole specchiata dall’Oceano. Questa volta è una festa mondana, larga ed elegante di colori: il blu del mare, il bianco della schiume e il giallo della sabbie. Siamo soli, io e un cane giallo anche lui, a sorbire il paesaggio stupiti, ci guardiamo e ci scambiamo la pelle e i ruoli. Gli chiedo se esiste un limite alla bellezza. Mi risponde che non c’è. Ma…
Il tamarro è sempre in agguato. Arriva con uno Strakar Sport E200 Mitsubishi, lui rimane dentro con il motore acceso. Che scendano gli altri a vedere il Vasto Mondo. Lui il mondo lo vede dal suo ferocissimo pick-up
6 DA ALJEZUL A CABO DE SAGRES – KM 67
La penisola di Carrapateira è colonizzata da turisti degli anni 60-70. È segnata dai fuochi degli accampamenti, da roulottes cromate con linee rotonde, da Volkswagen Transporter dell’epoca e da vecchi furgoni gialli della Deutsche Post trasformati in camper. Passo la sonnacchiosa Vila do Bispo ed ecco Cabo de Sao Vicente e la Fortaleza de Beliche, era una piccola Pousada sull’orlo della scogliera ma ora è chiusa e sta crollando nell’Oceano.
Sul lungo e piatto promontorio de Sagres l’Infante Dom Enrique, il fratello del re, fonda una scuola di navigazione. Il Portogallo fu la prima potenza atlantica a pensare alla via delle Indie in modo moderno, destinando risorse alla ricerca tecnica e all’organizzazione razionale dell’impresa. Dom Enrique chiama attorno a sè geografi, astronomi, tecnici, marinai che inventano e utilizzano nuovi materiali, strumenti e tecniche che resero il Portogallo, per un effimero ventennio a cavallo tra il 1400 e il 1500, il padrone del mondo.
O dono do Mundo.
Oltre la porta sulla muraglia che divide la Fortaleza dal resto del Portogallo non è rimasto ora un granché, alcune basse costruzioni, la cappella con le scale esterne e uno sterminato spazio piatto e aperto. Lì non servono più muri, i bordi precipitano verticali nell’Oceano. La struttura più intrigante è una grandissima meridiana-bussola-rosa dei venti. Mi dirigo al centro di quel luogo magico, rivolto perfettamente verso sud-ovest allargo le braccia a imitare il gabbiano. Non mi curo degli altri turisti che forse mi prenderanno per matto.
Strepito forte, come il gabbiano, e batto le ali verso l’Oceano.
In un tempo breve, spazi infiniti?
Adesso sono muto e immobile. Il mio viaggio finisce ora:
“Aqui. Onde a terra se acaba e o mar começa”
7 NOTE SUL RITORNO A CASA – KM 34
In bici aggiungo Lagos, che non necessita di una mia descrizione. L’ha già fatta Beatriz. Posso solo aggiungere che ho incontrato anche Mangiafoco che mi ha chiesto cinque euro, il Gatto e la Volpe e Pinocchio e quello che suona il tubo tibetano e Bob Dylan, ancora orfano del Nobel, a intonare mister tambourine man. Noleggio una Mitsubishi SW nera (che palle ‘ste Mitsubishi!) fino a Lisboa. Alla stazione di Santa Apolonia salirò sul Comboio Lusitania…
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