ORIENTE
Ao Oriente donde vem tudo, o dia e a fé,
Ao Oriente pomposo e fanático e quente,
Ao Oriente excessivo que eu nunca verei,
Ao Oriente budista, bramânico, sintoísta,
Ao Oriente que tudo o que nós não temos.
Que tudo o que nós não somos,
…
Vem, Noite antiquíssima e idêntica
Álvaro de Campos – Fernando Pessoa 1914
Traccia del percorso:
http://www.openrunner.com/index.php?id=3504014
http://www.openrunner.com/index.php?id=350403\
Foto
https://www.flickr.com/photos/84442834@N03/sets/72157644377262831/
Il titolo può essere pretenzioso. Ma è il mio primo cicloviaggio fuori dall’Italia e dalla mia lingua e oltre la ex cortina di ferro. Sono cresciuto quando ancora ad oriente c’era il nemico: i comunisti, le orde assetate di sangue di Gengis Khan, Gog e Magog; ancor prima dei profughi e migranti balcanici e dei “terroristi islamici”. Per me è molto più vicina Lisboa che Trieste, conosco meglio le Azzorre che le isole dalmate. Ma da Oriente viene tutto. L’oriente è tutto quello che noi non siamo. L’oriente è caldo, pomposo, fanatico, eccessivo. È ora di darsi una svegliata e iniziare a viaggiarci dentro, per ora, solo appena oltre il mio mare Adriatico. L’idea è quella di andare da Spalato fino a Igoumenitsa attraverso la Croazia, uno scherzo di Bosnia Erzegovina, ancora la Croazia, il Montenegro, l’Albània e la Grecia. Passerò comunque attraverso sette frontiere con tredici controlli di polizia.
Arrivo al porto di Ancona in bici. Il traghetto Marko Polo della Jadrolijnia mi conduce nella notte fino a Spalato con un’altra piccola nave arrivo a Stari Grad sull’isola di Hvar.
1 tappa da Stari Grad a Gradac
distanza 90 km – dislivello positivo 900 m
Scendo dal battello assieme ad un gruppo di turisti tedeschi. L’ambiente è subito famigliare: scaglia rossa fittamente stratificata, viti basse, alveari delle api, solo il mare è diverso, molto più bello. La strada fino a Jelsa si mantiene in piano poi, oltrepassate delle baiette di acqua e pini, sale in diagonale con una pendenza costante e sensibile fino ad una giogaia. Da lì il percorso si mantiene al centro dell’isola, lunga e sempre più stretta, a destra il mare e l’isola di Korcula, a sinistra il Mare e l’isola di Brazza e il continente con i suoi alti monti. Supero piccoli centri abitati con gente che taglia l’erba davanti casa. Un signore mi ferma e mi offre dell’acqua.
“Hvala. Bobra voda”.
Percorro ormai la sottile cresta dell’isola tra il mare e la penisola si Sabbioncello/Peljesac e il poco mare e il continente. Aggiro una cima pelata con antenne e in rapida discesa giungo alla punta di Sukuraj troppo preso per il battello delle 18 e troppo tardi per quello delle 15. Mi godo il sole pomeridiano e la tranquillità della piazzetta con i vecchi sulle panchine e i bambini che giocano a calcio. Sbarco a Drvenik che sono quasi le sette di sera, il sole tramonta lento sopra il mare tra gli ormai scuri profili di Hvar e Peljesac. I borghi turistici sulla costa sono ancora in letargo, è tutto chiuso. Seguo svogliatamente le indicazioni dell’Hotel Saudade (la Lusitania in Illiria?) poi, con grande tranquillità mi fermo a Gradac che è già notte.
2 tappa da Gradac a Dubrovik/Ragusa
distanza 120 km – dislivello positivo 1400 m
Esco sul balcone di casa sopra il porticciolo, ci sono alcune barche e un grande due alberi di legno, il mare è scuro, il cielo grigio a nuvole basse. Piove e pioverà per quasi tutto il giorno.
Saluto la signora della sobe che ha una figlia che vive a Foligno. Ha il caffè pronto con lo strudel, c’è anche una ragazza canadese che occupa la stanza vicino alla mia. Ha una mountain-bike ma senza sacche e bagagli, il mio non sapere l’inglese limita qualsiasi altra conoscenza.
“Sretan put! Andrea” (buon viaggio).
Con una ripida salita raggiungo la Magistrala che non è quel malefico percorso della letteratura cicloviaggica. Scorre bellamente, senza traffico, lungo la costa con tenere salite e altrettante discese. Si interna sovrastando i simpatici laghetti di Bacinska jezera, ma la pioggia incomincia a darmi noia. Ritorno sulla costa per raggiungere Ploce che piove veramente tanto. In lingua croata Ploce significa:
“Qui piove sempre molto ed era meglio che stavi a casa tua!”
Sulla pianura della foce del Neretva, i camion mi sorpassano e mi schizzano addosso acqua e fango, mi sporcano gli occhiali, ci vorrebbero i tergicristalli. Ritorna la salita che mi fa apprezzare dall’alto la fine del fiume di Mostar. Arriva all’Adriatico con una complessa rete di canali comunicanti che circondano con un gran traffico di piccole barche minuscoli appezzamenti di terra che fanno tanto risaie orientali. La Magistrala ritorna sulla costa alta di fronte alla montagnosissima penisola di Sabbioncello/Peljesac. Alla frontiera le guardie di confine bosniache hanno la divisa nera, o almeno me la ricordo nera e vogliono vedere i documenti, non sono ancora abituato a questo medio evo di controlli. Sono bagnato come un pulcino e l’acqua che scende dal casco inzuppa la carta di identità. Dopo alcuni chilometri non mi fermo a Neum. Non mi pare interessante il sogno adriatico dell’impero ottomano, semmai uno scherzo geografico o uno scherzo della repubblica marinara di Ragusa alla repubblica marinara di Venezia. La nuova frontiera per ritornare in Croazia mi aspetta dopo solo una decina di chilometri; la penisola del vino croato si fa addosso alla costa, oltrepasso la deviazione per Orebic e Korcula, continuo aggirando alcune insenature, se non piovesse sarebbe anche un bel andare. Alla fine, poco per volta la pioggia diminuisce, cessa. Poco prima del nuovo ponte sospeso sul piccolo fiordo a nord di Dubrovnik si vede l’ombra della bici con me sopra sull’asfalto. È una visione esaltante, sono euforico, contento come una Pasqua. Il ponte è vietato alle bici, lo supero a spinta sul marciapiedi, il vento lì sopra è molto forte. Dubrovnik è in basso, ancora pochi chilometri e mi calo veloce sulla Stari Grad. Non ho voglia di perdere tempo in una lunga ricerca dell’alloggio e mi nascondo veloce dentro un albergo a mille stelle appena fuori delle mura. Come dice Chatwin “Byzance!!!”
3 tappa da Dubrovik/Ragusa a Kotor/Cattaro
distanza 90 km – dislivello positivo 900 m
Si lascia a malincuore la Stari Grad di Dubrovnik non tanto per il suo grande fascino, indiscutibile ma un tantino di plastica, ma perché per raggiungere la Magistrala ci si deve impegnare in una lotta titanica con una salita catti cattivissima. Poi la strada ritorna quella amichevole di sempre con i soliti saliscendi più o meno lungo la costa, aggiro la baia di Cavtat, oggi c’è un bel sole si va alla grande. Mi allontano di nuovo dal mare, costeggio la pista del piccolo aeroporto e infine una salita mi conduce al confine. La polizia montenegrina è seria ma gentile. Tutt’altra polizia da quando è passato Rigatti. Mi registra dentro il suo computer ma mi dà il benvenuto in quella terra e mi ricorda che una nostra regina d’Italia era della loro terra.
“Sretan put! Andrea”.
Un’agile discesa mi conduce fino alla Baia di Herceg Novi. Fino qui il Montenegro mi sembra più Italia che Balcania. Le strade ritornano sgarrupatelle come quelle di casa e non come quelle precise e pettinate della Croazia. In giro è tutto un cantiere di costruzioni turistiche. I mezzi più presenti nelle strade sono le grandi autobetoniere che trasportano il calcestruzzo. Mi fermo in paese, grazioso e verde di palme, digradante fino al grande bacino esterno delle bocche di Kotor, un vero e proprio fiordo mediterraneo. In centro compero il mio pranzo, in giro noto tante belle, alte ragazze ben vestite. Costeggio tranquillo il bacino e incontro il primo cicloviaggiatore che viene nel senso inverso al mio, un lupo solitario con una Surly LHT. Arrivo allo stretto di Lepetane dove se si ha fretta si può prendere il ferry per il sud ma io non ho fretta. Oltre si apre il bacino interno del fiordo. Le montagne calcaree precipitano sulle acque azzurrine del mare Adriatico. È un luogo singolare e meraviglioso. Piccoli centri abitati si susseguono discreti e silenziosi incastonati le pareti rocciose e l’acqua cristallina. Ogni casa ha il suo piccolo molo che protegge il suo piccolo porto e la sua piccola barca. Mi sembra di essere ritornato su un piccolo lago di Como tra Varenna, Bellagio e Menaggio. All’inizio vado verso nord, poi a Risan torno verso sud; Perasto è più Venezia di Venezia con il suo campanile di San Marco e i palazzetti dalle finestre rampanti. Conservavano il sacro e ufficiale gonfalone della flotta, nascosto poi sotto l’altare nel 1797, alla fine della repubblica, all’arrivo dei francesi prima e degli austriaci poi.
“Noi con Te. Te con noi”
Pronunciò il conte Giuseppe Viscovich, ultimo capitano veneziano di Perasto, non si sa bene in che lingua, proclamando perpetua fedeltà alla repubblica. Di fronte a Perasto le due isolette di San Giorgio con la ex abbazia Benedettina e quella dello Scalpello che nacque appunto attorno ad uno scoglio a forma di scalpello per la testardaggine dei perastini che volevano un’isola e dopo aver ammazzato l’abate di San Giorgio, che non aveva consegnato loro la sua ma l’aveva data a Kotor, e dopo aver guadagnato la scomunica del papa e del doge, accumularono intorno allo scoglio tante di quelle rocce da ottenere l’isola per costruirci sopra la piccola e graziosa baroccheggiante chiesa. Kotor in fondo alla baia è scandalosamente bella, colta e interessante. La città vecchia è racchiusa dentro le sue possenti mura triangolari del 1400. Oltre la porta vie lastricate si dipanano tra piazzette e belle chiese e palazzi di roccia calcarea, vicoletti passano sotto arcate e si arrampicano sulla montagna incombente. Alla sera dai numerosi locali musica easy e jazz.
4 tappa da Kotor a Dulcinj
distanza 111 km – dislivello positivo 1200 m
La mattina è fresca e pulita, esco a piedi dalla città murata. Oltre la porta sull’esterno delle mura Il leone di San Marco è ancora lì, ferma nel porto la nave Serenissima. Ancora la venetitudine. Questa volta mi viene un tantino freddo a pensare ai novelli guerrieri della serenissima repubblica arrestati in Italia poco fa. Parto con la bici. Non succede sempre, ma, alla prima pedalata e al rassicurante doppio clic dei pedali tutto il mondo intorno a te incomincia a venirti incontro in una sintonia con il tutto e una felicità assoluta.
Concludo il percorso delle Bocche di Kotor ritornando verso nord e verso lo stretto di Lepetane. Tivat è più caotica e meno colta dei luoghi del bacino interno, vanta grandi supermarket e l’aeroporto. Proseguo verso Budva per arrivare al mare aperto. Poco prima della città, in discesa inizia una di quelle strane galleria più o meno artificiali aperte dal lato del mare. Risulta ben illuminata, e vado tranquillo poi improvviso dopo una curva il buco nero non illuminato della carognosissima galleria nella montagna.
Lì dentro è nero come la morte. In un attimo non vedo più nulla, sono smarrito, terrorizzato. Freno d’impulso, sento che il mondo oscuro mi vortica attorno. Mi fermo scendo dalla bici.
“Sono arrivato!!!”
Stanco di fuggire chinai la testa alla nera signora…
E invece. Niente, le poche auto che vengono mi evitano, ci vedono meglio di me. Riemergo vivo. Sono a Budva. Orribile enclave russa sull’Adriatico. Alberghi, palazzoni, residence, condomini riempiono la baia digradante e la costa. Ovunque cartelli e pubblicità in russo:
“Tu compra casa. Da!
“Costa poco.”
“Tu compra. Da!
Mi fermo solo perché il semaforo è rosso. Si ferma accanto a me una grossa moto con due persone. Il guidatore ha sul casco anche la telecamera. Mi guardano come se fossi una cacca di grillo. Mi sento tanto piccolo e indifeso, a disagio, forse un tantino fuori posto. Dobbiamo far presto a far entrare il Montenegro nella Comunità Europea se no Putin se la prende come ha fatto con la Crimea. Più a sud l’andare migliora, la strada sale e scende dalla costa alta, ci sono altre gallerie, tutte rigorosamente non illuminate. (ecco il mio problema montenegrino). Non c’è storia fino ad Ulcinj. L’aspetto della città ha una marcata impronta orientale: le case, il bazar, le moschee i minareti. Victor e la moglie mi accompagnano a piedi fino all’albergo, lui mi porta anche la bici. Hanno voglia di parlare. Accidenti passi per l’inglese, ma almeno sapessi il tedesco!
Alle ventuno risuona dagli altoparlanti dei minareti il richiamo alla preghiera:
Allahu Akbar, Allahu Akbar, Allahu Akbar, Allahu Akbar
Ash’hadu anla ilaha illallah, Ash’hadu anla ilaha illallah,
Ash’hadu anla Muhammadan rasulullaah, Ash’hadu anla Muhammadan rasulullaa
Hayya ‘alas-salat, Hayya ‘alas-salat
Hayya ‘alal falah, Hayya ‘alal falah
Allahu Akbar, Allahu Akbar
Laa ilaha illallah.
5 tappa da Dulcinj a Lezhe
distanza 78 km – dislivello positivo 300 m
La strada per il confine si insinua per una valletta rocciosa e supera un blando passo tra alte colline erbose. Al fondo della discesa l’Albània.
Ora che ho imparato quelle cinque frasi di circostanza in croato e in montenegrino, secondo loro sono due lingue, ma a me sembrano la stessa, devo cimentarmi con l’albanese che mi risulta ancora più lontano del basco. Ecco il confine dei confini, l’Albània. Anni di cattiva letteratura e cattivi esempi hanno costruito attorno a questo paese e agli albanesi dei forti pregiudizi sempre negativi: la mafia albanese (senti chi parla?), trafficanti di prostitute schiave, delinquenti, scafisti, brutti, poveri, sporchi, malati… e quanto peggio c’è nel vasto mondo.
Per giorni mi sono sentito dire:
“Ma ndo’ vai figlio mio? Proprio non c’hai n’altro posto ndo’ andà?”
“Laggiù te sbucciane come na banana!”
“Te fregane tutto, anche la bicicletta!”
E taccio le cose peggiori che mi potevano capitare in quel girone infernale.
Arrivo con una certa reverenza, mi metto buono buono dietro la fila delle automobili che mi precede. Invece, il poliziotto albanese, anche lui con la divisa nera, si sbraccia verso di me, mi indica che posso passare avanti a tutti. Arrivo alla botteguccia e saluto in italiano
“Buongiorno”.
E lui da dentro mi fa in italiano:
“Ciao! Benvenuto in Albània”.
Gli do la carta di identità. La scannerizza, pigia un mare di tasti al computer e poi la guarda e mi fa:
“Andrea. Ma quanti chili sei calato? Bravo con la bicicletta!”
Poi aggiunge:
“Per me la bicicletta è troppo lenta.”
E di nuovo:
“Ciao e buon viaggio.”
La strada è evidentemente peggiore di quelle del Montenegro ma me l’aspettavo peggio, il paesaggio è verdissimo, sulla sinistra una alta collina mi nasconde il lago di Skoder e a destra si apre la pianura del fiume Bojana. Sopra ogni costruzione sventola la bandiera nazionale rossa con l’aquila bicefala nera.
La gente è aperta, cordiale, curiosa, ti saluta sempre, dalle auto o dai camion ti suona e ti saluta con la mano. A volte ti ferma per sapere chi sei? Da dove vieni? Dove vai? Cosa sei venuto a fare?
I bordi stradali sono pieni di venditori di qualsiasi cosa: di frutta, di lattine e bottiglie di bevande, di galline, di conigli, oche, papere dentro le loro gabbie o libere. È pieno di gente che va e viene a piedi, in macchina, in motocicletta, in bicicletta, con carri trainati da cavalli o somari o con uno strano triciclo con avanti due ruote storte in basso verso l’esterno e un piccolo cassone e dietro il motore e il sedile del guidatore. Su questo triciclo di solito ci si porta di tutto e anche tutta la famiglia. È pieno di galline che beccano fino a dentro la strada, ci sono capre normalmente in piccoli gruppi e pecore in grandi gruppi più o meno interferenti con la strada. E pieno di mucche che brucano sui greppi o nei pressi delle case sparse e aleggia l’odore della cacca delle mucche che sta ai bordi della strada a mucchi e viene trasportata sui carri e utilizzato per concime.
La strada costeggia il fiume, poco prima di Skoder mi fermo sul bordo per mangiare. Dopo poco arrivano cinque persone a cavallo che avevo sorpassato in precedenza che mi salutano con slancio e con l’urlo di guerra di “Biskota, Biskota” mi fanno fuori tutto il pranzo. Prima lezione albanese: mai mangiare Biskota in pubblico.
Riparto oltrepasso il Bojana ed il Drin e i predoni di Biskota a cavallo e in nutrita compagnia arrivo veloce a Lezhe. Città non bella, in costruzione o costruita a metà, con la parte bassa di alcuni palazzi completata e con la rimanente con il solo scheletro di cemento armato. Le strade e i marciapiedi un poco sconnessi e ancora si fanno notare le orribili case popolari del regime di Enver Hoxha, Ma sono anche presenti un altissimo palazzo di vetro e cemento con in cima un ristorante di lusso e l’aria europea di Intesa Sanpaolo, Veneto Banka, Credit Agricole, Societé Generale, Conad. Carrefour L’Albània urbana è dinamica, si percepisce una tensione verso una robusta crescita economica. Mi accorgo che l’Italia è ancora un modello. (??) Al ristorante mi fanno notare che l’acqua e la Panna di Scarpèria Mugello Firenze Toscana Italia. A Durres l’acqua sarà la Rocchetta Umbria Italia, e l’olio extravergine di oliva il De Cecco di Fara San Martino. Chieti Abruzzo italia. Ovunque negozi di piastrelle italiane.
6 tappa da Lezhe a Durres
distanza 92 km – dislivello positivo 250 m
Inizio il viaggio verso sud superando lo scalo ferroviario di Lezhe sembra abbandonato da decenni ma Wikipedia giura che è un tratto ancora attivo. Credo che come da noi lo sviluppo ferroviari è stato abbandonato a del trasporto su gomma
Infatti ecco la modernità stradale. La rruga diventa a quattro corsie, nasce uno spartitraffico centrale di metallo Il classico cartello autostradale mi dice che non posso proseguire, ciclisti, pedoni, motociclette piccole ed altro ciarpame deve trovarsi un altro percorso. Torno indietro fino alla macchina della “Policia Rrugore” superata poco prima. Chiedo:
“La rruga per Durres?”
E lui mi risponde con un gran sorriso, indicando l’autostrada:
“ É quella!”
Ed io
“ Ma è vietata alle biciclette.”
E lui con una faccia contenta e coinvolgente mi fa:
“ Te digo vai!”
E mi da una vigorosa stretta di mano.
“Grazie”
Vado tranquillo verso sud e poco dopo mi accorgo che le autostrade albanesi sono abbastanza straordinarie. Ci viaggiano tranquillamente, biciclette, motorini, tricicli, carri trainati da cavalli, uomini a cavallo, pedoni. Le moto e i motorini, le biciclette, i carri a cavallo e anche le automobili ci viaggiano anche in contromano. Infatti se si proviene da una strada di terra che finisce sull’autostrada dalla parte sbagliata e non si può scavalcare il guard-rail centrale si va tranquillamente contro mano. In Albània le autostrade non solo monotone e prive di contatti umani anzi sono un laboratorio di socialità. I gruppi di persone fermi ad aspettare i piccoli autobus o taxi collettivi ti salutano cordialmente, Arriva gente in bici con sopra il portapacchi conigli e galline e si piazzano sulla via a vendere la loro mercanzia. Un signore magro e con i capelli arruffati aveva appoggiato la bici allo spartitraffico centrale di metallo e teneva per le orecchie un gran coniglio bianco e urlava ai passanti la qualità del suo prodotto. Si incontrano numerosi ristoranti, alberghi, gommisteri, mobileri, lavazh e botteghini di frutta e qualsiasi altra cosa. Le galline vengono a beccare fino all’asfalto.
Anche per questo l’Albània è un paese molto disinvolto nel fare convivere e usare nello stesso tempo tecniche e categorie modernissime ed iper tecnologiche ed arcaiche. Ti può capitare al semaforo che ti indica per quanti secondi rimarrà ancora rosso o verde di veder passare una grossa capra che tiene alla corda un altrettanto grosso omone. Oppure potrai visitare un negozio dove le scatole di scarpe stanno ammucchiate precariamente sul pavimento e poi ti fanno lo scontrino con il computer e il lettore del codice a barre e paghi con la carta di credito.
Comunque con tutte le distrazioni della rruga, con decine di strade che si immettono, con l’assenza di una valida segnaletica stradale, e con la mia notoria dabbenaggine sbaglio strada. Invece di prendere una deviazione per Durres prima dell’aeroporto tiro dritto fino alla periferia caotica di Tirana. Inizia a piovere fitto fitto.
Sono costretto ad imboccare l’autostrada Tirana-Durres. Poco più avanti si affianca una strada complanare più ciclabile ma non è semplicissimo andarci. Vado abbastanza veloce, incappo in uno scalino dell’asfalto. Il fianco delle Marathon Mondial non è proprio indicato per l’asfalto bagnato, sbando, cado con un botto tellurico, sulla corsia di marcia. Sono terrorizzato di essere investito da qualcuno che sopravviene, non ho tempo di dolermi della botta, mi rialzo di scatto, sollevo la bici e scappo verso il bordo. Si fermano in due automobili per vedere in che condizioni fossi. Mi fanno molto male il gomito, il fianco e la coscia sinistri.
“No no non è niente. Tutto ok!”
Loro insistono parlano di “spitali”.
“No. No. Non c’é bisogno!”
Per dimostrare che sono veramente ok, rimetto a posto la leva del freno che si era spostata nell’urto e riparto lentamente sotto la pioggia. Vado, mi fa male, ma vado. Arrivo a Durres che ancora piove ma il dolore è scomparso quasi del tutto. Durres è una grande città, non ho problemi a trovare una sistemazione sul lungomare e un ottimo ristorante di pesce a prezzi ridicoli.
7 tappa da Durres a Fier
distanza 88 km – dislivello positivo 300 m
Giornata buona, non piove, appena partito, poco fuori del porto di Durres incontro una coppia di cicloviaggiatori che arrivano da Amsterdam con due Santos Travelmaster stracariche. Sono appena sbarcati dal traghetto da Bari e vanno fino in Nepal. La strada costiera passa dietro a decine di alberghi costruiti direttamente sulla spiaggia. Poi si interna in una pianura abbastanza monotona. Mi fermo a mangiare dopo il ponte sul fiume Shkumbinit. Passa un carro trainato da un cavallo con due ragazzi sopra. E subito mi fanno:
“Biskota??”
Ed io:
“No sono finiti.”
Arrivo a Fier.
8 tappa da Fier a Gijrokastra
distanza 110 km – dislivello positivo 1500 m
“Non fare la strada vecchia è un disastro”
Mi dicono in tanti. Mi fido.
La strada nuova scorre su per la larga valle del fiume Vjose. Sembra una valle himalayana grandissima con il fiumone dal corso anastomizzato tra le isole ghiaiose. Il mondo appare vastissimo, le montagne lontane con qualche baffo di neve.
Il viaggio per la prima parte non tocca centri abitati, abbandona il fiume e la sua valle per una gran salita e per la sua conseguente discesa che mi fa ritornare nella grande valle e più avanti al centro abitato di Tepelene, che comunque rimane al di sopra della strada, dietro il castello di Alì Pashë Tepelena, il governatore della parte europea dell’impero ottomano nel XVIII secolo. Prendo la valle, più stretta dell’affluente Drino (si chiamano tutti uguale?) e senza tante salite arriva alla parte moderna di Gijrokastra. Mi aspetta invece una ripida ascesa per guadagnare la parte vecchia quella incantevole e un tantino fuori della storia. Un intreccio di vie lastricate in ripido dislivello attorno alla moschea, allo slanciato minareto, alle case tradizionali con i piani alti aggettanti alla maniera turca, botteghe artigiane e negozi.
Appena arrivo chiedo a un signore che pare aspetti gli ospiti, se conosce l’hotel Gijrocastra.
Mi risponde in un italiano perfetto.
“Si lo conosco, ti accompagno è vicino”
Il suo nome in albanese è impronunciabile e non ho capito nemmeno il corrispondente italiano.
Ha voglia di parlare
“Ho imparato l’italiano alla radio quando ancora era vietato dalla dittatura stalinista di Enver Hoxha. Ma non sono mai stato in Italia. Qui tutti sono andati in Italia ma io no.”
Più mi guarda bene in faccia e mi fa
“Credo che io e te siamo coetanei”
In effetti abbiamo più o meno la stessa eta. O meglio lui ne qualcuno più di me. Poi mi elenca i pregi della sua città, che ha dato i natali anche a due grandi albanesi, uno nel bene, lo scrittore Ismail Kadaré e l’altro, nel male, l’odiato dittatore Enver Hoxha.
Arrivati in albergo si assicura che tutto vada bene e se ne va con un solo grazie.
“Di niente.”
Mi risponde.
Il maestro dell’hotel mi accompagna, mi fa mettere la bici nel balcone della stanza con bella vista sulla vellutata verde collina sovrastante trapunta di case tradizionali.
Alla fine se ne sta andando e allora gli dico:
“Ma non vuoi i miei documenti?”
Mi risponde un tantino stranito:
“Chiedere i documenti ad un turista italiano?” (???)
9 tappa da Gijrokastra a Sarande
distanza 65 km – dislivello positivo 600 m
Scendo di sotto per la prima colazione con i calzoni corti da ciclista. L’albergatore ride. Non credeva che sarei partito con la bici per arrivare fino in… Grecia e poi con quel tempo che promette pioggia. Il tragitto verso la Grecia invece è agevole. La valle è quasi pianeggiante, glabra, il tempo da tregenda rimane solo scenografico. Il Drino scorre vicino a me. Ritorna l’idea di ieri di essere in una valle Himalayana. I villaggi che passano abbarbicati sulla mia destra mi sembrano quelli costruiti sulle conoidi nella valle dello Zanskar. Mancano le bandierine di preghiera, i “chorten” i muri “mani” e magari stonano un poco nella mia malata immaginazione i cartelli in doppia lingua, l’albanese e il greco. A Jorgukat abbandono la via principale per una salita verso est dentro un tempo sempre più freddo e più piovoso. Oltre il passo il mondo cambia. Le diverse valli scendono dentro colline boscosissime e verdissime. Una deviazione mi conduce alla Siry i Kalter una risorgiva di acqua veramente blu. Suggestiva e selvaggia e altrettanto suggestive e selvagge sono le strutture turistiche collegate. forse ancora in costruzione o forse finite cosi. In seguito è tutto uno scorrere di torrenti, uno zampillio di sorgenti e una profusione di cascatelle fino al paese di Mesopotam. Dietro una inaspettata salita, Saranda è mondana e piena di alberghi moderni costruiti attorno al piccolo porto e alla baia di fronte a Corfù.
10 tappa da Sarande a Igoumenitsa
distanza 70 km – dislivello positivo 450 m
Poco a sud di Saranda ho l’ultimo contatto con altri cicloviaggiatori. Si sono incontrati una coppia che sale da sud e un quartetto che scende verso la Grecia come me. Sono tutti tedeschi. Gli sembra un tantino strano che sono italiano, solo e in quei posti. (??) e hanno biciclettacce raccogliticce che farebbero tanta letteratura per molti del forum del cicloviaggiatore: due vecchie Trek di bassa gamma, una vecchia Centurion e una biammortizzata anonima. Salgo sopra lo stretto istmo che divide il lago dal mare. A sinistra il lago di Butrinto e a destra il mare e poco più in là Corfù. Il paesaggio è vario e interessante la strada è un bel saliscendi fino al paese di Ksamil e fino all’estuario del Vivari che esce dal lago stesso, e dove su una penisola rotonda sorgono le rovine della città di Butrinto. Interessantissima e con i monumenti fantasticamente inseriti in una vegetazione rigogliosa e ombrosa. Visito con scrupolo il teatro, il foro, il battistero e la basilica. La città era attiva già prima di Cristo attorno ad un tempio dedicato ad Esculapio. Poi Augusto la ingrandì e ci fece una colonia per i veterani della guerra vinta su Marcantonio. Abbandono Butrinto verso sud passando l’estuario sopra una chiatta mobile. La chiatta è un tavolato di legno piantato sopra quattro scafi di acciaio e si muove ancorata ad un cavo teso tra le due sponde con l’ausilio di un piccolo motore a scoppio. Potrà contenere due o tre automobili e va e viene senza sosta. Nel mio viaggio eravamo in tre passeggeri: una bimba di ritorno dalla scuola, io e la mia Salsa Vaya. Il pilota piazzato sopra una sedia aziona il motore e forse in un modo brusco mi chiede in greco:
“Ena Evrò!”.
Tiro fuori tutti i Leke spiccioli che mi rimangono e glieli faccio prendree a lui. Ne prende 140 preciso come una banca svizzera. Di là dell’estuario la strada si allontana dalla costa, l’asfalto incomincia a latitare, a poco a poco diventa di fango e sassi e piena di buche. Da dietro le montagne a nord est viene su un pattone di nubi plumbee e tuoni poco rassicuranti, la mia carta Albanien 1:400.000 Freytag & Berndt è davvero pessima, non ci sono le strade, addirittura mancano i laghi e le distanze sono sbagliate, chiedo più di una volta se quella è la strada giusta per Igoumenitsa. Tutti mi dicono
“Te digo vai. È la via giusta.”
Buco la ruota posteriore, c’è dentro un pezzetto di metallo, cambio la camera d’aria, non sono mai molto veloce, riparto e poco dopo la ruota posteriore é a terra di nuovo. Questa volta c’e dentro un pezzetto di vetro. La seconda camera d’aria di scorta una Schwalbe AV 18 ha la valvola Dunlop che non entra nel buco del cerchio.
Sono un idiota!
Riparo con una pezza e con il mastice quella di prima. Sono ancora più lento. Arriva qualche goccia. Vado, del resto sul telaio c’é stampato “adventure by byke”
Alla fine sopra una ripida salita di fango arrivo alla strada asfaltata che mi conduce sotto la pioggia battente fino alla frontiera con la Grecia in cima ad un’altra salita.
La polizia albanese mi fa gran feste e mi invita a tornare nella sua terra e mi rassicura che presto finirà di piovere. Il posto di blocco greco è più in basso. Mi controlla i documenti una signora bionda con la divisa azzurra. In fondo alla discesa la strada ritorna al mare, la pioggia finisce, esce il sole tra le nubi e illumina di colori vivi l’Adriatico e le sue baie e le sue isole lì davanti. Sono contento, il mondo è bello, sono quasi arrivato.
Poco più avanti l’ultimo problema, un problema serio di cui mi ero dimenticato. Tre cagnacci, ringhiosi e abbaianti ma perfettamente comunitari, mi sbarrano la strada. Non un cane avverso ho incontrato in Montenegro nè in Albània. Ho una certa esperienza di cani e li supero con una certa sicurezza. Questa Grecia non è poi tanto differente dall’Albània, stesse pecore e capre, stesse facce, mancano le onnipresenti bandiere rosse con l’aquila nera e ci sono al bordi della strada tante minuscole chiesette bizantine colorate di bianco e azzurro impirate sopra cippi di pietra.
Arrivo sul lungomare prima del porto, mi fermo per cambiare gli occhiali. Mi investe prima un forte effluvio di Kashmir di Chopard, un profumo a cui un tempo ero affezionato e poi ci passa dentro una ragazza tiratissima a stivali e giacca di pelle. Ora il paesaggio è proprio cambiato. Il viaggio è veramente finito. Aspetto buono buono la partenza del traghetto Hellenik Spirit della ANEK. La nave è piena di greci chiacchieroni. Arrivo ad Ancona dopo diciotto ore e mezzo di navigazione.
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