/  Maledetto giorno di pioggia
18 Settembre, 2020

Maledetto giorno di pioggia

 In una delle innumerevoli navigazioni su Internet, alla ricerca di materiale per organizzare i miei cicloviaggi, capitai casualmente su un sito in cui si elencavano una serie di record, stile Guinness dei primati, stabiliti in bicicletta. Alla rinfusa venivano citate prestazioni di ogni genere: minor numero di forature, massima altitudine raggiunta, maggior chilometraggio percorso in un giorno e via di questo passo. Tra le altre amenità, una in particolare mi aveva colpito. Riguardava la stoica giornata di due ragazzi nel bacino amazzonico che avevano pedalato per 10 ore sotto la pioggia battente. Alla mente mi sovvenne immediatamente il cicloviaggio in terra di Spagna e la terrificante tappa da Valencia a Calpe.

Le prime avvisaglie del cambiamento meteorologico si erano manifestate il giorno precedente, poco prima dell’arrivo a Valencia. Nuvoloni plumbei mi avevano accompagnato per gli ultimi chilometri, scaricando a sprazzi una pioggia intensa seppur di breve durata, sufficiente, comunque, a inzupparmi totalmente. Quando si è bagnati dalla testa ai piedi, con i fiotti d’acqua che fuoriescono dalle scarpe, non si è nelle migliori condizioni per riflettere con la dovuta attenzione. Mi ritrovai, quindi, nella maleodorante reception di una sordida pensione con le pareti chiazzate di umidità ed enormi ragnatele penzolanti agli angoli del soffitto annerito dal fumo. Davanti a un televisore in bianco e nero, su divani sfondati e consunti, sonacchiavano alcuni anziani signori, mentre procaci signorine imparruccate, abbigliate solo con impermeabili trasparenti e calze a rete, camminavano svogliate nella sala disadorna. Alla vista della bicicletta, alcune di loro stiracchiarono un sorrisetto ironico e uno degli astanti sputò per terra, mentre il portiere mi chiedeva se volevo la stanza ‘de luxe’ o quella ‘standard’. Forse a causa di un inconscio riflesso oppositivo optai per la prima soluzione, cagionandomi un’atroce ascesa al sesto piano, su anguste e instabili scalette, con tanto di bicicletta in spalla da depositare in camera, perché, ovviamente, la pensione non disponeva di garage o altra soluzione adatta alla bisogna e di lasciarla nella hall neppure a parlarne, avrebbe, a detta del proprietario, dequalificato il locale! Dopo numerosi urti, una buona serie di incastramenti e un paio di dolorosi inciampi la camera ‘de luxe’ era finalmente davanti ai me e sin dalla prima occhiata apparve evidente che in quella stanza entravo io o la bici, di certo non entrambi. Non so se avete presente il famoso quadro di Van Gogh in cui l’artista ritrae la sua stanza da letto? Sia come sia, la camera ‘de luxe’ della pensione valenciana era tale e quale, solo che sedia, tavolini e armadio non erano storti per la prospettiva pittorica, lo erano realmente. La finestra non si chiudeva, ciò nonostante un odore stantio permeava la stanzetta e il materasso era talmente sfondato che adagiandovisi sopra ci si ritrovava piegati a ‘U’ al centro dello stesso. Il bagno in camera, che determinava la qualifica di lussuosa alla stanza, era una doccia malamente inchiodata all’armadio, con acqua fredda e lo scarico intasato grazie al quale, dopo una frettolosa risciacquata, la stanza si era ridotta alla stregua di una risaia vietnamita. Inutile chiedersi come poteva essere la camera ‘standard’.

Al rientro dalla cena, la stanza si presentava ancora parzialmente allagata e dalle pareti si udivano distintamente gemiti e cigolii. Tentando di trovare una posizione decente sul materasso stile fachiro, mi dimenai per una buona mezz’ora prima di trovare una precaria sistemazione unendo i due tavolini a formare una sorta di letto palafitta, visto che sul pavimento c’erano almeno tre centimetri d’acqua. Incredibilmente riuscì ad assopirmi, però la luce filtrante tra le persiane sconnesse, impose il risveglio mattutino circa alle 5. Al tentativo di alzarmi crollai pesantemente faccia al suolo, su cui stagnava ancora abbondante l’acqua del giorno prima. Le gambe, costrette a penzolare per un buon terzo fuori dai tavolini, si erano completamente addormentate: beate loro! Dopo lunghi frizionamenti, una serie di torsioni da far invidia a un gatto e le solite peripezie sulle scale traballanti, riprendevo finalmente la strada gettando un occhio distratto e neppure troppo preoccupato all’orizzonte nerastro che mi attendeva. Gli spagnoli hanno una terminologia pittoresca per descrivere le condizioni meteo. Il temporale lo chiamano liricamente: chubasco tormentoso letteralmente rovescio temporalesco. Mai termine fu più azzeccato.

Fu veramente un tormento! La tappa prevedeva di raggiungere Calpe. Secondo la guida un pittoresco paesino di grande attrattiva turistica per via dell’ampia spiaggia e di un promontorio roccioso che sovrastava il litorale. Ottimo! 130 chilometri circa su una strada piacevolmente ondulata, in parte costiera, da percorrere con tutta tranquillità godendosi il paesaggio marino. A ciò pensavo mentre divoravo la colazione nell’unico bar aperto alle 6 del mattino. Una brezza sostenuta mi spirava alle spalle, accelerando la pedalata. Ora, ogni ciclista sa bene che, in presenza di cielo coperto, se il vento soffia si sta preparando a piovere. Per nulla intimorito da tale consapevolezza, accolsi senza sorpresa, dopo appena un paio di chilometri, le prime fitte gocce di pioggia. Mentre infilavo la giacca impermeabile, scrutavo il cielo alla ricerca di uno squarcio nel compatto fronte nuvoloso e in lontananza mi parve persino di scorgerlo. Potere dell’auto convinzione! Ci fosse anche stato lo spiraglio di luce si richiuse subito e giunto nel paesino di El Saler, un nome per sempre scolpito nella mia memoria, l’acquazzone assunse aspetti di temporale con tanto di lampi e tuoni, giusto per non farsi mancare nulla. Esaltato dall’impetuoso vento che mi spingeva, consentendomi di raggiungere velocità inimmaginate, convinto della inevitabile diminuzione dell’intensità piovasca, ma, soprattutto, già bagnato come un pesce, decisi di proseguire a pedalare. Le condizioni atmosferiche, però, peggioravano in modo esponenziale. I fossi tracimavano, i canali di scolo sembravano impetuose cascate e la strada si era allagata in ogni punto, sino a far scomparire la riga centrale di segnalazione, assomigliando vieppiù a un letto di fiume. In alcuni tratti pedalavo con le caviglie completamente immerse, sollevando a mo’ di aliscafo, due elevate onde di percorso. Dopo un paio d’ore di faticosa ‘surf-bike’, affrontata, però, con incredibile e irresponsabile vitalità, una camionetta di carabineros, da cui uno degli occupanti si sbracciava pronunciando frasi incomprensibili, mi riportò alla dura realtà. L’euforia determinata dalla situazione eccezionale cessò immediatamente; in un attimo mi resi conto della infelice situazione in cui mi trovavo.

Pioveva sempre più intensamente e nessun veicolo, tranne appunto la camionetta dei carabinieri spagnoli, transitava da tempo sulla strada ‘affogata’ in mezzo metro di acqua torbida. Il vento, prima favorevole, ora spirava di lato costringendomi a compensare la sua spinta con continue e pericolose oscillazioni. Gli indumenti erano fradici e sciabordavano quasi quanto la bici entro la superficie liquida nella quale era immersa oramai ben oltre i pedali. L’apparizione di un enorme toro nero, noto simbolo pubblicitario di una ditta di liquori, posto su una collinetta prospiciente a un incrocio mi precipitò in una sorta di crisi esistenziale, acuita dalla cupa visione della desolata statale N332, spazzata dalla bufera, senza ripari e completamente deserta. In altre condizioni atmosferiche l’assenza di traffico sarebbe stata una circostanza ideale, ma in quel caso acuì maggiormente le mie difficoltà e i successivi chilometri furono una sofferenza solitaria. Svuotato d’energia, con pochi ripari naturali sotto cui potersi fermare per riposarsi, percorsi una ventina di chilometri all’andatura di un bradipo, fino a quando, nei pressi di Xeraco, notai alcune case e una posada che elessi immantinente mio refugium peccatorum.

Appoggiata malamente la bici sotto un portico di canne, bussai alla porta che dopo poco mi venne aperta da un’anziana signora con i capelli bianchi, racchiusi in una ordinata crocchia. Le innumerevoli rughe non addolcivano il volto duro da pasionaria, dal quale brillavano due occhi scurissimi e penetranti che mi squadrarono da capo a piedi senza lasciar trasparire una minima emozione. Con un cenno perentorio della mano mi intimò di attendere sulla soglia e poi scomparve. Ritornò, dopo breve tempo, con due vecchie bacinelle di plastica scolorite e, sempre gesticolando, mi ordinò di usarle a mo’ di pattine, indicandomi, con un repentino movimento della testa, di dirigermi verso un enorme camino, adornato da numerose corna di toro, posto in fondo allo stanzone. Strisciando e gocciolando raggiunsi il tavolo davanti al focolare in cui la pasionaria aveva attizzato il fuoco sul quale borbottava una pentola in rame. Con fare deciso accompagnato da un lieve mormorio, cominciò a togliermi gli indumenti bagnati e tacitò il mio comprensibile imbarazzo con un pacca sulle spalle. Restato in mutande mi spinse sulla sedia e si allontanò dirigendosi in cucina. Ritornò con un piatto fumante e una coperta rattoppata in più punti. Gettandomi sulle spalle il polveroso panno di lana, forse utilizzato per proteggere dal freddo l’asino che avevo scorto in giardino, accennò a un sorriso, mise il piatto sul tavolo e si allontanò lanciandomi un’occhiata che a me parve per la prima volta benevola. La zuppa sulla quale sgocciolavano i capelli era bollente e squisita, sebbene in quelle condizioni anche l’olio di ricino caldo sarebbe sembrato una delizia, buona al punto tale che la coperta bisunta era già diventata un drappo, le bacinelle erano immaginate alla stregua di calzari da cavaliere e le corna sul muro trofei individuali.

L’ingresso di un nutrito gruppo di avventori, in sosta per le classiche tapas, ruppe l’incantesimo. Le loro risatine, gli ammiccamenti e alcuni commenti sardonici evidenziarono la grottesca condizione di un ciclista inzuppato, in mutande e calzini, con i piedi dentro dei catini di plastica, coperto da un panno per asini, vicino a una parete piena di corna che campeggiavano sulla sua testa. La perfetta rappresentazione simbolica del motto italico: “cornuto e mazziato”; una scena quasi donchisciottesca. In un sopravvento di dignità, mi alzai scrollandomi imperiosamente di dosso il manto e attraversai la stanza con la testa alta e l’incedere sicuro, portando sul braccio, come una muleta de toreador, gli indumenti ancora imbibiti che il fuoco aveva ‘profumato’ come baccalà affumicati. Rivestitomi in fretta e furia, ripresi con rinnovata vigoria la strada constatando, con rassegnata preoccupazione, la immutabilità delle condizioni atmosferiche. Fischiettando, cantando a squarciagola, imprecando e incoraggiandomi ad alta voce superai altri 40 chilometri e due forature, oltrepassando i cento e le sette ore di pedalata. In fondo, se ci si convince di stare sotto la doccia casalinga, una prolungata esposizione alla pioggia non rappresenta insuperabili difficoltà. Procedevo, dunque, relativamente spedito, nonostante l’intensità della precipitazione limitasse di molto la visibilità. La maledizione di ogni cicloviaggiatore, però, era pronta a colpire.

In ognuno degli appartenenti a questa strana razza ‘bi-ruote’ è presente una curiosità quasi brutale. Nulla affascina di più della possibilità di percorrere una strada alternativa. Neppure ore e ore sotto il diluvio, possono spegnere questo fuoco di conoscenza, questo istinto primordiale, questa assurda spinta all’autolesionismo. Raggiunta l’anonima località di Ondara un bel bivio mi pose di fronte all’ineluttabile: un’anonima stradina che prometteva chissà quali meravigliose scoperte. La imboccai senza alcuna esitazione e cominciò il calvario. Dopo pochi chilometri il manto stradale si era ridotto a una sottile striscia zeppa di buchi, al suo lato il fango del terreno alzava alti schizzi ogni qual volta le ruote uscivano dal pertugio asfaltato, la pioggia batteva incessante e dilavava le rocce poste ai fianchi della strada riempendola di detriti. Enormi rami spezzati costringevano a scendere dalla bici per scavalcarli sollevandola, inoltre il vento aveva cambiato il suo orientamento e ora spirava energicamente in opposizione al senso di pedalata. Risultato: 18 chilometri in un due ore e mezza!

A Xabia, un paese di cui non ricordo nulla, cercai inutilmente un riparo, ma tutto sembrava inghiottito dalla pioggia e non vi era apparente segno di vita. Un cascante cartello stradale sforacchiato da colpi di fucile, indicava che a Calpe mancavano ancora 30 chilometri. Con un inspiegabile meccanismo mentale, forse un impulso per recuperare energia da qualche parte del mio corpo, mi misi a riparare il cartello e non ripartì prima di averlo ben fissato al suo posto. A condizioni immutate, le previsioni per l’arrivo oscillavano tra le 3 e le 4 ore. Per fortuna il percorso invertiva la sua direzione e, dunque, il vento tornò a spingere impetuoso rendendo la pedalata snella, sebbene gli ostacoli naturali si facessero sempre più numerosi. Infine, alle nove di sera, accolto da un beffardo tramonto che infiammava il mare, ben oltre le 15 ore di sforzi, compresa l’ascesa al promontorio che sovrastava l’agognata meta finale, di cui 12 sulla bici, raggiunsi Calpe. Ero talmente ‘cotto’ che cercai immediatamente un posto in cui rifugiarmi. Dopo quasi due ore, intirizzito e privo di forze, stavo ancora cercando un letto.

L’alta stagione e il fine settimana, era venerdì, avevano riempito la località di turisti e in ogni dove si registrava il ‘tutto esaurito’. Mentre vagavo come uno zombie nella vana ricerca, un signore con una sgargiante maglia da ciclista, per solidarietà tra eguali, mi accompagnò da un affitta camere in cui trovai il meritato giaciglio. Caricai, quale apoteosi finale, la bici in spalla per portarla in camera e mi ficcai ancora vestito sotto la doccia bollente. Con enorme e imponderabile soddisfazione mi tolsi fango e altri detriti dagli orifizi più impensati. Rilassato dopo la lunga abluzione e ancora fumante di vapore, verificai con sgomento che tutto il contenuto delle borsine era fradicio e inzaccherato. Svuotai con furore i bagagli e cominciai a lavare a testa china in un lavabo delle dimensioni di un francobollo ogni indumento e stendendo metri di spago attraverso la stanza la trasformai in una sorta di lavanderia cinese. Colto da mania ossessiva pulii anche la bici, le borsine e ritornai a farmi la doccia prima di abbandonarmi, verso le due di notte, in un sonno agitato da un dolore diverso dal solito intorpidimento dei quadricipiti decisamente più simile a quello da gomito della lavandaia.

Davide Baroncini

 

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