Ravenna – Firenze: Cicloviaggiatori sul Cammino di Dante
CICLOVIAGGIO IN 4 TAPPE TRA ROMAGNA E TOSCANA
Fonte d’ispirazione e modello di riferimento per una folta schiera di letterati dal 1300 in poi, Dante Alighieri è probabilmente il più famoso poeta italiano nel mondo e la Divina Commedia è universalmente considerata l’opera più importante scritta in lingua italiana. Nella sua opera si nascondono diversi riferimenti geografici che forniscono a noi cicloviaggiatori più di uno spunto per la definizione di un itinerario che attraversa la storia, la poesia e il nostro territorio. Città, vie, monumenti, bellezze naturali ci parlano del Sommo Poeta così come, nelle terzine dantesche, ritroviamo quei riferimenti geografici che ci parlano dei luoghi del suo esilio e molti di questi sono proprio in Romagna, terra che Dante attraversò durante il suo esilio prima di approdare definitivamente a Ravenna dove trovò ospitalità presso i da Polenta i signori che governavano la città.
Il gruppo di cicloviaggiatori è formato da diversi soci storici dell’associazione: Silvana, Marina, Gigi, Catia e Marco, Mauro, Francesco, Giovanna, Larissa e Gorgino. Ci siamo conosciuti proprio grazie all’associazione e questo ci ha dato la possibilità di organizzare tanti viaggi diversi in tutto il mondo, sono amicizie ormai consolidate da anni ed è sempre bello affrontare una nuova avventura insieme.
Questa volta mi dedico io ad individuare le strade e i sentieri più adatti perché siamo praticamente “a casa mia”, sono le mie zone e le conosco molto bene per cui so bene dove si nascondono le insidie degli sterrati e le alternative per evitarle. Mi coadiuva Silvana che telefono alla mano si dedica alla ricerca e prenotazione degli alloggi e adesso siamo a raccontarvi i risultati del nostro lavoro.
TAPPA 1
RAVENNA – ROCCA SAN CASCIANO
75 km + 1.030 m (+ 4 km di percorso urbano a Ravenna)
RAVENNA
Nel 2021 si celebrano i 700 anni dalla morte di Dante quindi il nostro punto di partenza non può che essere Ravenna, la città che diede asilo al poeta, dove morì e che raccoglie le sue spoglie. La costruzione di questo percorso mi offre non solo la possibilità di ripassare cose che già sapevo sulla storia del poeta ma anche, curiosando qua e là, di imparare e approfondire alcuni argomenti che sui banchi di scuola non avevamo affrontato…e vi dirò che Dante e la divina Commedia hanno assunto una connotazione molto più reale. Noi pedaleremo nello stesso territorio che Dante ha conosciuto, vissuto e ha messo in versi e questo rende il tutto più stimolante. Sapevo che Dante arrivò a Ravenna da esule ma i fatti che lo costrinsero all’esilio quelli no così dopo qualche cliccatina in rete mi ritrovo nella Firenze del 1302, anno in cui Dante venne chiamato a comparire dinanzi al podestà della città, Cante Gabrielli da Gubbio, accusato di una serie di reati da gran delinquente. Ma perché?
Siamo a Firenze nel 1300 e le controversie tra Guelfi e i Ghibellini animavano già la vita politica della città in più la fazione guelfa era divisa in due parti contrapposte: i Guelfi bianchi e i Guelfi neri. I Guelfi neri parteggiavano papa Bonifacio VIII, il quale attraverso il partito Guelfo nero cercava di indirizzare le decisioni politiche nell’ambito fiorentino pur essendo Firenze al di fuori dello Stato Pontificio, mentre i Guelfi bianchi, a cui apparteneva Dante, erano contrari a che il papato potesse condizionare la politica fiorentina. Una gran maretta!
Dunque Dante era un guelfo bianco e siccome all’epoca dominava a Firenze la parte dei guelfi neri e lui era stato priore nel governo fiorentino negli anni precedenti e siccome era comunque un personaggio influente, gli fu intentato un processo nel quale gli venivano addebitate varie ipotesi di reato.
Secondo gli storici vennero contestati a Dante una serie di reati quali la “baratteria”, un reato del pubblico ufficiale che oggi si chiamerebbe traffico illecito di influenze, corruzione e appropriazioni indebite di denari pubblici. Oltre a questi capi d’accusa gli si contestavano anche tutta una serie di reati squisitamente politici cioè di aver avvantaggiato la parte bianca in danno dei neri abusando della sua funzione istituzionale. Così nel gennaio del 1302, Dante venne citato a comparire davanti al Podestà ma intuendo che il contesto processuale non era a lui favorevole e visto che si trovava a Roma come ambasciatore presso il papa decise di non tornare a Firenze nonostante fosse stato ben informato di questa citazione a comparire.
Fu proprio questo disertare il processo che gli cagionò la condanna all’esilio infatti gli statuti fiorentini dell’epoca, cioè la legge penale e processuale del tempo, stabilivano che l’imputato dovesse essere notiziato, cioè informato, in tutti i modi possibili dell’esistenza del processo e dell’invito a comparire tramite banditori pubblici ma l’imputato che, nonostante fosse stato avvisato, non compariva davanti al Podestà veniva dichiarato ‘contumace’ che per le regole dell’epoca significava essere equiparato a un reo confesso. Quindi il giudice ebbe buon gioco ad emettere, il 17 gennaio, la prima sentenza di condanna che fu il pagamento di una somma di fiorini di notevole entità da saldare entro tre giorni. Con la previsione che se l’imputato non provvedeva al pagamento della somma il giudice, a suo arbitrio, poteva commutare la pena pecuniaria in una pena di carattere personale così con la successiva sentenza del 10 marzo sempre del 1302 la pena venne commutata nel famoso esilio. Successivamente ci fu un’altra sentenza in contumacia in cui Dante fu condannato alla pena capitale.
Iniziò quindi per il poeta un lungo esilio che lo vide peregrinare da Arezzo in Lunigiana, da Bologna a Forlì, da Verona infine a Ravenna. Nella Divina Commedia parla più volte del dolore di non poter tornare in patria. Seppure all’epoca fosse già famoso come poeta e scrittore non ci furono mai le condizioni per un rientro nella città gligliata. Gli fu proposto di tornare a Firenze grazie ad una specie di amnistia condizionata all’oblazione cioè al pagamento di una somma, alla reclusione in carcere per un certo periodo e all’umiliazione pubblica in una processione in cui doveva comparire come penitente cosa che Dante non accettò mai per cui non rientrò più a Firenze.
Dante coi suoi tre figli Jacopo, Pietro e Antonia trovarono ospitalità dall’amico Guido Novello Da Polenta, signore della città nonché padre di Francesca uno dei personaggi più celebri della Commedia assieme a suo cognato Paolo.
Guido Novello da Polenta fu podestà della città di Ravenna dal 1316 al 1322 e la sua politica fu improntata alla ricerca della pace con Venezia con la quale c’erano forti attriti per via del commercio del sale. Proprio Dante ebbe un ruolo fondamentale nelle trattative coi veneziani per scongiurare il conflitto e fu durante il viaggio di ritorno da una di queste ambascerie in Veneto che il poeta contrasse la malaria nelle paludi di Comacchio e ne morì nel 1321 tra il 13 e il 14 settembre.
Negli anni in cui visse a Ravenna Dante terminò la stesura Commedia completando parte del Purgatorio e scrivendo l’intera cantica del Paradiso, pubblicata postuma dai suoi figli.
Ravenna viene menzionata nella Commedia come toponimo in diverse occasioni e non mancano nemmeno i riferimenti poetici come quello nelle parole di Francesca
Siede la terra dove nata fui
su la marina dove ‘l Po discende
per aver pace co’ seguaci sui.
(Inferno, Canto V, vv. 97-99)
Basta divagazioni e torniamo ai giorni nostri e al nostro viaggio. Ci diamo appuntamento tutti davanti alla stazione ferroviaria e partiamo iniziando con un piccolo tour cittadino facendo tappa nei luoghi della vita degli Alighieri a Ravenna.
A pochi metri dalla stazione ci fermiamo davanti alla chiesa di Santo Stefano degli Ulivi. L’edificio è uno dei meno rinomati della città e si trova in una posizione di passaggio così spesso sfugge all’attenzione del visitatore. La chiesa appare menzionata per la prima volta in alcuni documenti del X e XI secolo mentre la struttura primitiva si trovava presso il bagno dei Goti, ad balneum Gothorum, un edificio termale. La definizione degli ulivi, olivorum, risale solo al XIII secolo. Nell’adiacente monastero, attestato già nel 1313 fu probabilmente monaca Antonia Alighieri, suor Beatrice, che qui morì nel 1371. Oggi ospita la caserma della Polizia Municipale (via Rocca Brancaleone).
Sosta breve poi ripartiamo verso via Zanigola dove, come riporta l’Archivio di Stato di Ravenna, è probabile che avesse preso casa proprio il figlio di Dante, Pietro. A Pietro Alighieri si deve nel 1347 il primo commentario dell’opera del padre, Petri Aligherii super Dantis ipsius genitoris Comoediam commentarium, viene considerato fondamentale per la comprensione di alcuni oscuri passaggi della Commedia.
Passiamo per le vie ancora addormentate del centro storico e raggiungiamo via Pasolini per una foto di gruppo con un ritratto contemporaneo di Dante: il murales dell’artista brasiliano Kobra.
Quindi con una googalata scopro che Eduardo Kobra è uno dei “muralisti” più conosciuti al mondo. E’ un artista brasiliano di São Paulo, poco più che quarantenne, che ha scelto come suo supporto preferito i muri delle grandi città sia in Brasile che e in molti paesi europei. Lo stile di Kobra è caratterizzato dal realismo e dal colore. I suoi soggetti sono spesso personaggi pubblici, poeti o personaggi noti della storia e cultura del paese in cui opera. Anche la sua marca espressiva è molto tipica: ritratti a cui si sovrappongono una griglia geometrica di figure elementari (triangoli, quadrati, rettangoli) che invadono il volto con i loro colori saturi.
Scattata la rituale foto di gruppo saltiamo nuovamente in sella e raggiungiamo la tomba del poeta, passando davanti al teatro a lui dedicato, in via Dante Alighieri nel cuore della Zona del Silenzio. Dirimpetto al monumento funebre c’è il palazzo che fu l’antica dimora della famiglia Scarabigoli, contemporanei dei Da Polenta, indicato come una delle probabili abitazioni del Poeta durante il suo soggiorno a Ravenna ma concentriamoci sulla sua eterna dimora.
In perfetto stile neoclassico settecentesco è chiamata affettuosamente dai ravennati la “zuccheriera” per la sua forma tondeggiante e il suo colore candido, fu terminata nel 1781 dall’architetto Camillo Morigia, autore di diversi costruzioni in città tra la cui la suggestiva facciata della Basilica di Santa Maria in Porto. Affacciato lo sguardo all’interno, l’attenzione viene attirata dal grande bassorilievo rinascimentale del 1483 che cattura un Dante assorto nella lettura realizzato dallo scultore Pietro Lombardi, quello della famosa statua del Guidarello, e una lampada settecentesca alimentata con olio degli ulivi toscani.
Tutti gli anni nell’anniversario della sua morte, il 13 settembre, si svolge la Cerimonia dell’Olio: un rito che si ripete come omaggio reso da Firenze all’Esule. Il Comune di Firenze offre l’olio al sepolcro del Poeta, accendendo la lampada votiva che arde ininterrottamente dal 1908, dono anch’essa della città gigliata.
A lato, un piccolo giardino forma un tutt’uno con il complesso della tomba. È il Quadrarco di Braccioforte, un antico oratorio che ai tempi del Poeta doveva essere collegato alla vicina basilica di San Francesco e che, nei secoli, fu la scenografia nella quale si ambientò il mistero delle Ossa di Dante. Attualmente ospita due grandi sarcofagi marmorei d’età romana e un piccolo campanile che ogni sera, all’imbrunire, suona tredici rintocchi in memoria delle famose terzine della Commedia.
LE PERIPEZIE DELLE OSSA DI DANTE
Il giorno dopo il decesso il corpo del poeta fu sepolto nello stesso sarcofago in cui si trova tuttora, ma che era allora posto sulla parete di fondo della cella dei Polentani, nel chiostro di Braccioforte sopra nominato. Dopo pochi anni i fiorentini cominciarono a reclamare le reliquie del loro cittadino più illustre. La prima richiesta giunse nel 1396; fu rinnovata nel 1428 e poi nel 1476, sempre senza successo.
Alla fine del XV secolo il podestà veneto di Ravenna Bernardo Bembo spostò il sepolcro sul lato ovest del chiostro stesso. Quando sul soglio pontificio ascesero due papi fiorentini, entrambi della famiglia Medici, Leone X (1513-21) e Clemente VII (1523-34), i fiorentini credettero che sarebbero riusciti nel loro intento di riportare le spoglie del poeta nella città che gli diede i natali. Leone X concesse nel 1519 ai suoi concittadini il permesso di prelevare le ossa del poeta per portarle a Firenze tant’è che il grande Michelangelo fu incaricato di progettare ed erigere il monumento funebre. Ma quando la delegazione toscana aprì il sarcofago le ossa non c’erano più. I frati francescani infatti, poco tempo prima, avevano praticato, dal retrostante chiostro, un buco nel muro e nel sarcofago ed avevano prelevato i resti del poeta. A nulla valsero le suppliche volte alla restituzione. Lo stesso sarcofago fu poi trasferito all’interno del chiostro del convento e gelosamente sorvegliato: basti pensare che, quando nel 1692 fu effettuata la manutenzione della tomba, gli operai dovettero lavorare sorvegliati dalle guardie. Nel 1677 le ossa vennero racchiuse in una cassetta, oggi conservata nel museo Dantesco, dal priore del convento Antonio Sarti, e furono ricollocate nell’urna originaria solo nel 1781, quando il Morigia costruì l’attuale mausoleo, parte integrante dell’annesso convento. Durante il XVII secolo si consumò un’aspra diatriba, accesa dal Comune di Ravenna che contese ai Frati Minori la “giurisdizione sul sepolcro dantesco”. Agli inizi del Settecento i monaci videro riconosciuti i loro diritti. Ma quando, nel 1810, il convento fu chiuso per ordine del governo napoleonico (legge 25 aprile 1810 sulla soppressione degli ordini religiosi), i frati decisero di non portare le ossa con loro ma di lasciarle in un luogo sicuro. Nascosero nuovamente la cassetta e la murarono nell’attiguo oratorio del chiostro di Braccioforte. I frati lasciarono la città e della cassetta non si seppe più nulla. Così, dall’inizio dell’Ottocento, tutti coloro che vennero a Ravenna per rendere omaggio a Dante ignorarono che il sepolcro fosse in realtà vuoto. Le ossa del sommo poeta furono ritrovate casualmente da un muratore il 27 maggio 1865 durante i lavori di restauro in vista delle celebrazioni del VI centenario della sua nascita. Se non finirono in un ossario comune si dovette all’intervento di un giovane studente, Anastasio Matteucci (poi divenuto uno stimato notaio) che lesse e interpretò la dicitura sulla cassetta che iniziava con le parole: dantis ossa a me fra antonio sarti hic posita anno 1677 die 18 octobris. Lo scheletro fu ricomposto con dei fili d’argento e sistemato su un cuscino di raso bianco in un’urna di cristallo. Venne esposto al pubblico per tre giorni alla fine di giugno. Migliaia di persone accorsero a vederla; numerosissimi dalla Toscana. Successivamente le ossa ritornarono all’interno del tempietto del Morigia, in una cassa di noce protetta da un cofano di piombo.
Durante la seconda guerra mondiale la cassetta fu nuovamente nascosta per evitare che i bombardamenti la distruggessero. Fu prelevata dal tempietto il 23 marzo 1944 e ricollocata il 19 dicembre 1945; durante questo periodo rimase sepolta a pochi metri di distanza dal mausoleo sotto un tumulo coperto da vegetazione, oggi contrassegnato da una lapide.
BASILICA DI SAN FRANCESCO
Attraversiamo il giardinetto del Braccioforte e ci troviamo nella piazza antistante la Basilica di San Francesco dove si svolsero i funerali di Dante. L’edificio fu fatto erigere dal vescovo Neone nel V secolo e successivamente fu al centro di svariati rifacimenti che ne modificarono l’assetto architettonico, introducendo alcune novità strutturali come il campanile nel X secolo ma soprattutto la cripta a oratorio che preserva sotto 1,5 mt d’acqua bellissimi mosaici d’età tardoantica.
Al suo interno tante sono le testimonianze che ci riconducono al Trecento, tra queste la Cappella dei Polentani, con pregevoli affreschi di scuola riminese, la pietra tombale di Ostasio da Polenta e una piccola botola a terra, profonda tre metri, che conduce alla soglia laterale della Basilica. Pare, ma non ci sono le testimonianze che certifichino la veridicità della notizie, che fino alla Seconda guerra Mondiale qui si preservasse anche un ritratto del Poeta a firma del Giotto, ormai andato distrutto.
CASA DI FRANCESCA
Se Dante e Virgilio incontrano Francesca da Polenta nel V canto dell’Inferno, travolti dal racconto del suo amore per Paolo Malatesta, noi, invece, la incrociamo nei pressi di Porta Sisi, in Via Zagarelli alle Mura. Qui, una tradizione locale riconosce in una casa, disadorna e a faccia-vista, databile forse al XIII secolo, il luogo natale della celebre Francesca. Noi non sappiamo distinguerla inoltre, dopo fermate caffè-brioche-cappuccino e quant’altro si è fatto un certo orario quindi non tergiversiamo oltre e lasciamo la città ma voi lettori avete sicuramente tempo per rinfrescarvi la memoria sulle vicende di Paolo e Francesca.
Con Paolo e Francesca Dante costruisce un dramma tra eros e thanatos, quello dell’amore che non può dominarsi, dello strazio di una passione che ubriaca i sensi. Dante racconta una favola, tramuta, grazie alla pura virtù della poesia, una pagina di cronaca nera nel mito dell’amore rapinoso, alla cui forza nessuno può resistere:
Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona
(Inferno, Canto V, vv. 97-142)
Chissà come avrebbero trattato la notizia dei due fedifraghi programmi come Verissimo (uhh proprio!) o La Vita in Diretta (si si!). Gli ingredienti perfetti per riempire ore e ore di tv spazzatura ci sono tutti: lei era Francesca da Polenta di Ravenna e lui era Paolo Malatesta di Rimini: belli e giovani appartenenti a due delle più importanti famiglie della riviera romagnola travolti dalla passione d’amore…vai col collegamento in esterno sul lungomare di Rimini e la linea passa ad una gracchiante inviata di mezza età finto ventenne grazie a botox e alchimie estetico raccapriccianti. Invece per voi lettori scatta un approfondimento sciuè sciuè. Da Polenta e Malatesta erano in continuo disaccordo fra di loro finché, per porre fine a mille diatribe, decisero di mettere una pietra sopra il passato e di unirsi in un’alleanza politica suggellata da una bella unione matrimoniale. Così, nel 1275, Guido Minore da Polenta decise di dare in sposa la giovane e bella figlia Francesca al figlio di Giovanni Malatesta, anche per ringraziare quest’ultimo di averlo aiutato a scacciare la nemica famiglia dei Traversari. L’idea piacque a entrambe le famiglie e si stabilì che Francesca sarebbe andata in sposa a Gianciotto, il futuro erede. Erano tempi nei quali i giovani non avevano grandi possibilità di opporsi alle decisioni matrimoniali dei genitori: dovevano semplicemente obbedire, accettarle e basta, senza tener conto dei sentimenti. Però uno degli amici di Guido, che lo conosceva, lo mise sull’avviso, come ha scritto il Boccaccio: «Voi dovete sapere chi è vostra figliuola, e quanto ell’è d’altiero animo; e, se ella vede Gianciotto, avanti che il matrimonio sia perfetto, né voi né altri potrà mai fare che ella il voglia per marito».
Pare dunque che Francesca potesse avere un certo caratterino tanto da avere da ridire sulle nozze combinate ma possiamo solo supporlo e pensare che fosse attraversi i fatti. I padri, potenti signori di Ravenna e Rimini, certi che Francesca, allora di 15 o 16 anni, non avrebbe accettato, senza opporsi, l’unione con quel brutto, violento e anziano Gianciotto, dedito alle armi, fisicamente menomato e culturalmente grezzo, pensarono bene a come imbrogliarla. Inviarono a Ravenna il fratello di Gianciotto, cioè Paolo il Bello, definito «piacevole uomo e costumato molto» già da cinque anni sposo di Orabile Beatrice, figlia ed erede del conte Uberto di Ghiaggiolo, rocca del Forlivese, e padre di un maschietto e di una femminuccia. Pare che Francesca non sapesse chi fosse tal Paolo e al suo arrivo a Ravenna una damigella, istruita all’inganno, glielo fece spiare attraverso la fessura di una finestra e le disse:
«Madonna, quegli è colui che dee esser vostro marito». Vedendolo, Francesca ne fu colpita e affascinata e, credendolo il vero e futuro marito, non ebbe esitazione alcuna a sposarlo, senza rendersi conto che il rito stava avvenendo per procura e che il bel giovane e aitante Paolo era solamente il procuratore.
Naturalmente, fu un fulmine a ciel sereno quando si rese conto che il marito non era chi aveva desiderato fosse, ma al pasticcio non c’erano possibilità di rimedio, e a Francesca non restò altro che rassegnarsi al suo triste destino. Cercò di non lasciarsi abbattere dallo sconforto e di accettare ciò che la sorte, opportunamente ammaestrata, le aveva riservato. A rallegrare la sua vita era nata la figlia Concordia e lei accettava la sua sorte di moglie di Gianciotto, anche perché lui ne era innamorato e la copriva di attenzioni e di regali.
Intanto Paolo, che aveva proprietà nei pressi di Gradara, spesso le faceva visita, sia per farsi perdonare per l’inganno al quale aveva personalmente partecipato, sia forse perché un nuovo sentimento era nato in lui. La conseguenza fu che uno dei fratelli, invece di badare ai fatti suoi, si accorse degli incontri che avvenivano segretamente fra i due, li spiò e intese cosa stesse succedendo. Era costui un tale Malatestino dell’Occhio, così denominato perché privo di un occhio, ma «da quell’uno vedeva fin troppo bene». Gianciotto era Podestà e per questa sua funzione ogni si recava sovente a Pesaro. Un giorno di settembre del 1289, qualcuno, forse proprio Malatestino, lo avvisò che Paolo si sarebbe fermato a Gradara. Gianciotto finse di partire per Pesaro, come il solito, ma rientrò e, percorrendo un passaggio segreto giunse alla porta, dietro la quale i due giovani stavano leggendo la vicenda di Ginevra e Lancillotto e quando la aprì ebbe la sorpresa di vederli scambiare un «casto bacio». L’ira scoppiò furiosa e Gianciotto estrasse la spada avventandosi contro Paolo, il quale tentò la fuga, infilandosi in una botola posta vicino alla porta, ma per sua sfortuna, secondo quanto si dice, il vestito restò impigliato in un chiodo, impedendogli di fuggire. Questo inciampo lo fece restare inerme davanti alla spada del fratello. Francesca gli si mise davanti, facendogli da scudo e Gianciotto, che stava dando il colpo con la spada, li trafisse entrambi, uccidendoli.
La sommaria esecuzione dei due giovani naturalmente sollevò un grande sbigottimento fra i contemporanei. Secondo alcuni fu divulgato come il classico «delitto d’onore», una vendetta del marito offeso contro i due fedifraghi, ma ci sono altri osservatori che puntano su una scusa per il fratricidio e l’uxoricidio dettati da questioni meramente politiche e per interessi personali. Infatti, questi sono del parere che Gianciotto desiderasse allearsi con la città di Faenza e, per questo, doveva eliminare la moglie che, in fin dei conti, non lo amava e che era d’intralcio per i suoi progetti, che riguardavano le sue future nozze. Del resto, pochissimo tempo dopo il malfatto sposò la Faentina Zambrasina degli Zambrasi che gli diede ben sei figli.
Non è detto se Paolo e Francesca fossero seppelliti insieme o separatamente. Si sa, comunque, che nel 1581 in un sarcofago della chiesa di Sant’Agostino a Rimini furono trovati i corpi di due persone, che si pensa fossero quelli dei due amanti, in splendide vesti, abbracciate come lo erano state in vita.
(Grazie a Mario Zaniboni fonte indispensabile per quanto scritto sopra)
Tornando a noi Cilcloviagiatori ci siamo lasciati all’uscita della città e riprendiamo il nostro diario dall’argine del fiume Montone, il cui corso ci accompagnerà lungo la strada verso il confine con la Toscana. Lo sterrato è sempre pedalabile non ci ritroviamo, come qualche volta accade pedalando sugli argini, nel bel mezzo della vegetazione che serve il machete per avanzare. Così un po’ su sterrato un po’ su asfalto arriviamo alle porte di Faenza.
Ma non vogliamo spenderle due righe sul fiume Montone?! Certo che si non vi voglio mica lasciare coi dei dubbi!
FIUME MONTONE
Il fiume nasce in provincia di Firenze, nei pressi del Passo del Muraglione. Il suo primo tratto prende il nome di Troncalosso e presso San Benedetto in Alpe riceve dalla destra un piccolo affluente, il Rio destro, e poco oltre si immette sulla sua sinistra un secondo affluente di notevole lunghezza, l’Acquacheta, che in passato veniva considerato il primo tratto del fiume, noto per la sua cascata in località Romiti.
A Castrocaro e Terra del Sole riceve le acque del Rio Cozzi e nei pressi di Vecchiazzano riceve il suo affluente più importante, il Rabbi, continuando il proprio corso verso Forlì. Aggirando la città, riceve il Rio Cosina, piccolo affluente che segna il confine tra il comune di Forlì e Castrocaro e nei pressi di Ravenna si unisce al fiume Ronco, costituendo così il corso d’acqua denominato Fiumi Uniti fino allo sbocco in mare Adriatico.
Ve la siete cavata con poco: roba da ridere se confrontata con la storia delle ossa di Dante!
Torniamo a pedalare ci allontaniamo dal Montone e ci dirigiamo verso sud-ovest, aggirando Faenza in direzione di Oriolo dei Fichi. Lasciamo la dolce e quieta pianura e iniziamo a salire in direzione San Biagio Vecchio.
Un pensiero positivo pro-salita: oltre al bel panorama pensate che cornetto e cappuccino si smaltiscono ad ogni pedalata.
All’altezza del ristorante San Biagio Vecchio giriamo a destra su uno sterrato in uso ai cacciatori per una piacevole digressione per campi e vigneti. Tra le coltivazioni di questa zona è presente un’uva antica coltivata solo nei dintorni di Oriolo che produce il vino Centesimino.
Questo sterrato ci permette di arrivare alla Torre di Oriolo facendo un breve tratto del sentiero dell’Amore lungo il quale è possibile leggere, scritte su cartelli appesi ad alberi e filari, brevi frasi e poesie del “Poeta Contadino” Nino Tini.
Ma che ch’azzecca Oriolo dei Fichi, località già storicamente attestata almeno dall’anno 898, con Dante!? Ch’azzecca ch’azzecca…
Nella Torre di Oriolo dei Fichi infatti trovò rifugio Alberigo dei Manfredi, personaggio, di dantesca memoria
Rispose adunque: “Io son frate Alberigo,
io son quel dalle frutta del mal orto,
che qui riprendo dattero per figo
(Inferno, canto XXXIII, vv. 118-120)
Alberigo dei Manfredi, detto Frate Alberigo (1240 circa – 1307 circa), è un personaggio che si incontra nel canto XXXIII dell’Inferno di Dante Alighieri, nella terza zona del nono cerchio, e cioè nella Tolomea, dove sono puniti i traditori degli ospiti. Della famiglia dei Manfredi di Faenza, era nell’ordine dei Frati Gaudenti dal 1267. Il 2 maggio del 1285 invitò a convito due suoi parenti con i quali era in discordia (Manfredo e Alberghetto dei Manfredi), e li fece uccidere a un segnale convenuto, che era quello di servire “la frutta”.
Secondo il Buti, uno dei primi commentatori della Divina Commedia, sarebbe esistito nel Trecento una frase proverbiale di ricevere la “frutta di frate Alberico” per indicare un tradimento.
L’accesso alla Torre è consentito solo in occasione degli eventi organizzati nei mesi estivi. Nel fine settimana e nei giorni feriali solo di sera è attiva una trattoria.
Lasciamo alle nostre spalle Oriolo dei Fichi e torniamo a pedalare su asfalto lungo il crinale che divide Castrocaro/Terra del Sole dal comune di Faenza, via Montefortino, da cui si gode sicuramente del bel panorama tra ginestre e cipressi. Giunti all’altezza di via Croce, sulla nostra destra, ci buttiamo in picchiata nella valle del Samoggia per prendere un nuovo sterrato. Poco dopo la discesa, sulla sinistra, prendiamo via Montepaolo che attraversa tutta la zona del Molino Samoggia. Pedaliamo chiaccherando serenamente: il fondo sterrato è in buone condizioni, la careggiata è larga e la giornata è perfetta. Meno perfetta pare invece quella della signora che ha posteggiato la sua auto in bilico sul fossato. Vedendo la sventurata e il suo soccorritore in difficoltà i Cicloviaggiatori non ci pensano due volte si fanno prodi ed audaci saltano giù dalle loro biciclette e accorrono a dare una mano per rimettere l’auto in carreggiata! Ricevuti i sentiti ringraziamenti ricominciamo a pedalare fino al fondo valle dove proseguiamo a sinistra e iniziamo un’ascesa di circa 3 km. La salita non è mai troppo “cattiva” comunque fondo e carreggiata sono ottimi e il contesto naturale offre una piacevole distrazione.
I lettori più curiosi devono sapere che poco dopo la fine della salita, a sinistra, si trova il Santuario di Sant’Antonio noi passiamo oltre senza visitarlo però adesso voi lettori vi sorbite le annotazioni sui fatti che furono.
In una zona attigua, sul pendio che guarda verso la valle del Samoggia che unisce Modigliana con Faenza, fra il 1221 e il 1222 visse per una quindicina di mesi, presso un modesto romitorio, padre Antonio, al secolo Fernando Martins de Bulhòes (1195-1231). Questi si rivelò a Forlì, nel settembre 1222, per sapienza, cultura teologica e grande capacità oratoria, tanto che gli venne immediatamente conferito l’incarico di predicatore dall’ordine francescano, movimento religioso che fu molto caro anche a Dante. Padre Antonio potrebbe essere tornato a Montepaolo sei anni dopo per chiudere il romitorio che si trovava in condizioni precarie e trasferire i confratelli, molto probabilmente a Castrocaro. Prima conosciuto come Antonio da Forlì, divenne poi Antonio da Padova e fu proclamato santo l’anno successivo alla morte, avvenuta nella città veneta nel 1231. Montepaolo è anche il punto di partenza per il pellegrinaggio detto Cammino di Assisi.
Dopo aver riempito le borracce grazie alla gentilezza degli ospiti della comunità di Montepaolo giriamo a destra in via Casella. La strada è sterrata e rimane per un buon tratto in crinale da dove possiamo scorgere guardando alla nostra sinistra la rocca di Dovadola, probabilmente il borgo più antico che incroceremo lungo il nostro percorso. Nei secoli passati il borgo di Dovadola era attraversato in due punti dal corso del Montone tanto da giustificare il riferimento al latino “Duo vadora”, ossia due guadi, da cui deriva il toponimo. Il primo insediamento risale alla preistoria mentre il massiccio castello che domina l’abitato è di origine longobarda, risale al XII secolo ed era di proprietà della nobile famiglia Guidi che diede ospitalità a Dante il quale la ricorda con gratitudine più volte nella Commedia. Il fondo di questo sterrato è buono non presenta particolari difficoltà solo un brevissimo strappetto prima arrivare al valico e quando l’acido lattico inizia a far grippare i muscoli dei meno allenati ecco che quassù si apre alla vista un bellissimo panorama sulla vallata, dal verde delle prime dolci colline romagnole all’incresparsi dei calanchi giallo ocra, dalla siluette di Faenza, Forlì in lontananza Bertino e Cesenatico fino alla linea grigio azzurra dell’Adrio Mare. Un balcone fiorito vibrante di colori dal giallo delle ginestre e del tarassaco al fucsia acceso della sulla dal rosa del fiordaliso cicalino al bianco delle margherite.
La sosta ci rinfranca e iniziamo a scendere, sempre su sterrato, fino ad incrociare la strada asfaltata che in un paio di chilometri ci porta sulla provinciale SP 67 poco oltre Dovadola a Casone. Quest’ultimo tratto che noi facciamo in discesa è una delle più note salite in zona per i ciclisti con bici da corsa: il mitico Trebbio.
Un paio di chilometri dopo Casone lasciamo la SP 67 e prendiamo sulla destra una più civile, dal punto di vista del traffico, strada secondaria che con qualche dolce saliscendi ci permette di arrivare a Rocca San Casciano, il nostro finale di tappa, in tranquillità…così Silvana può affiancare il suo interlocutore riducendo notevolmente il rischio di essere “stirata”.
ROCCA SAN CASCIANO
Arriviamo a Rocca San Casciano il nostro finale di tappa in perfetto orario birretta fresca che possiamo gustare nel cuore del paese in piazza Garibaldi, singolare per la sua forma triangolare. L’orologio posto in cima alla torre del Palazzo Pretorio indica le 17:30 mi sembra quasi un miracolo essere aver concluso la tappa poco prima del tramonto. Miracoli che sicuramente la popolazione del seicento invocava rivolgendo le loro preghiere alla statua della Madonna Addolorata che fa compagnia all’orologio della Torre. La Madonna ha una spada che le trafigge il cuore e sembra piangere sulla sventura che ha colpito il paese con il terremoto del 1661. Così com’è ritenuta miracolosa la “Madonna delle Lacrime”, raffigurata in una bella terracotta dipinta nel 1500, che si trova nella Chiesa di Santa Maria delle Lacrime a pochi passi dalla piazza.
Rigenerati da una bella doccia siamo pronti per un’altra importante prestazione quella a tavola! Noi Cicloviaggiatori siamo molto prestanti e tenaci quando si tratta di mangiare e siamo pronti ad affrontare anche discrete maratone mangerrecce e al ristorante dell’albergo Pasquì, dove alloggiamo non scherzano anzi, come scriverebbe il poeta e Cicloviaggiatore Olindo Guerrini, “i tira a fev la pell” (letteralmente tirano a farvi la pelle ovvero tentano di farvi morire): bis di primi, tagliatelle ai porcini e tortelloni ricotta e spinaci burro e salvia, per secondo tagliata di manzo al rosmarino e arrosti misti, contorni patate al forno e pomodori gratinata…dolce a scelta.
Per dovere di cronaca la colazione non è da meno: torte e crostate fatte in casa!
TAPPA 2
ROCCA SAN CASCIANO – SAN BENEDETTO IN ALPE
34 km + 1.038 m
Lasciamo Rocca San Casciano dopo aver cincischiato in piazza non pochi minuti alla ricerca della storica bottega del ciabattino Sgalin e prendiamo la strada provinciale SP 67. E’ una partenza “soft” su asfalto, in leggera salita e dopo 6 km arriviamo a Portico di Romagna.
PORTICO DI ROMAGNA
Doverosa e imprescindibile per il nostro itinerario dantesco è la sosta a Portico di Romagna infatti questo borgo medievale è il paese di origine della famiglia di Beatrice, la donna amata dal poeta, i Portinari
Sovra candido vel cinta d’uliva
donna m’apparve, sotto verde manto
vestita di color di fiamma viva
(Purgatorio, Canto XXX – vv. 30- 33)
La maggior parte degli studiosi individua in Bice di Folco Portinari la Beatrice amata da Dante Alighieri. Folco Portinari fu un banchiere molto ricco e in vista nella città di Firenze, ove si trasferì dalla natia Portico. Nella città sull’Arno fu fondatore di quello che tutt’oggi l’ospedale di Santa Maria Nuova, il principale nosocomio nel centro cittadino. Visse in una casa vicina a quella della famiglia Alighieri ed ebbe sei figlie, fra queste Beatrice la cui data di nascita è stata ricavata dagli studiosi in analogia a quella di Dante (coetanea o di un anno più piccola del poeta, che si crede sia nato nel 1265). L’anno della scomparsa di Beatrice è stata desunta dalla “Vita Nuova”, la prima opera certa attribuita al poeta. Altre notizie biografiche riguardanti Beatrice provengono anch’esse da questo libro, come la descrizione dell’unico incontro con Dante, il saluto e il fatto che i due non si scambiarono mai parola.
Dopo la foto di gruppo sotto lo stendardo raffigurante Dante e Beatrice ci dirigiamo verso la parte più bassa del paese, verso il fiume, che è la più caratteristica e la meglio conservata del borgo da qui si accede al Ponte della Maestà, un ponte medievale ad arco unico che conserva ancora la pavimentazione originale. Ennesima foto poi andiamo a far provviste per il pranzo e il solito caffè per signore.
Riguadagnata la provinciale ci prepariamo psicologicamente e fisicamente a conquistare il primo passo della giornata il passo Valbura o del manzo. (Dislivello mt. 485; pendenza media 7%; massima 12%)
Poco prima di arrivare al paese di Bocconi giriamo a sinistra e attraversiamo il ponte sul fiume Montone e iniziamo immediatamente la ripida salita su asfalto immersi in un fitto boschetto a latifoglie. Usciti dal boschetto inizia un lungo tratto allo scoperto che risale le pendici del colle caratterizzate da una vegetazione principalmente arbustiva in questa stagione ricca di ginestre. In alcuni tratti la salita si fa erta e tocca pendenze del 12%. Siamo ormai arrivati al passo ma dobbiamo mettere tutti i piedi a terra e spingere le bici per un brevissimo tratto di sterrato che taglia il fronte della frana che dal 2014 ostruisce la sede stradale e la rende intransitabile alle auto. Giungiamo così in poco più di 7 km al passo a quota 945 mt.
Panorama, panchine e tavoli ci permettono di riposare e consumare uno spuntino a cuor leggero: per oggi la parte più importante della fatica l’avete fatta. Ristorati e rilassati ripartiamo prendendo la strada sterrata che inizia dopo la sbarra e che conduce al Monte Gemelli. Il primo tratto è molto panoramico: la veduta sulla verdissima foresta del Casentinese è molto suggestiva. Il fondo è sempre buono, la carreggiata ampia non presenta mai difficoltà. Anche quando entriamo nel fitto bosco possiamo continuare a pedalare in tranquillità. Giusto in discesa prestiamo un po’ di attenzione: alcuni tratti sono un po’ ripidi e altri presentano della ghiaia ancora non ben assestata perché riportata da recenti lavori di ripristino ma nulla di impossibile. Alla fine della discesa eccoci arrivati a San Benedetto in Alpe il nostro odierno finale di tappa.
SAN BENEDETTO IN ALPE
Il borgo di San Benedetto in Alpe (Castrum Sancti Benedicti) nasce come colonia durante l’espansione imperialista dei Romani. Nel secolo IX venne eretta l’Abbazia dei Benedettini di Cluny (Monaci Neri), i cui poteri e possedimenti, nel trecento, si estesero in tutte le vallate vicine. A seguito dei gravi danni dovuti all’abbandono, nel 1723, sul sito di una sola navata fu alzata una nuova e più piccola chiesa. Nel 1848 l’Abbazia crebbe d’importanza e potenza, con possedimenti in Val di Montone, Lamone, Marzeno, in Toscana e a Forlimpopoli tanto da dare il nome di “Alpe di San Benedetto” a tutto il tratto di crinale tra Casaglia e il Falterona. Nel piazzale adiacente il ponte sul torrente Acquacheta, c’è una bella fontana sulla quale sono incisi i versi con cui il sommo poeta Dante Alighieri, che soggiornò in questi luoghi, citò la cascata nella Divina Commedia paragonandola alla caduta che compie il fiume Flagetonte quando precipita dal VII cerchio (quello dei sodomiti) all’VIII (quello dei fraudolenti)
Come quel fiume c’ ha proprio cammino
prima dal Monte Viso ’nver’ levante,
da la sinistra costa d’Apennino, che si chiama Acquacheta suso, avante
che si divalli giù nel basso letto,
e a Forlì di quel nome è vacante, rimbomba là sovra San Benedetto
de l’Alpe per cadere ad una scesa
ove dovea per mille esser recetto
così, giù d’una ripa discoscesa, trovammo risonar quell’acqua tinta, sì che ‘n poc’ora avria l’orecchia offesa
(Inferno, Canto XVI, 94-102)
Se la tappa di oggi è breve c’è un motivo: serviva arrivare nel primo pomeriggio per poter fare il trekking alla cascata dell’Acquacheta e come da programma eccoci qui a scarpinare su per il sentiero 407 immersi nella natura. L’escursione non è difficile però per andata e ritorno ci vogliono almeno 3 ore e quando rientriamo siamo alquanto stanchi ma con lo stomaco molto ben predisposto per la cena!
Questa sera siamo ospiti dell’albergo Acquacheta e il menù non sfigura di certo se paragonato a quello della sera precedente: tris di primi, tagliatelle ai porcini tortelli di patate al ragù e tortelloni ricotta e spinaci al burro e salvia, secondi arista arrosto e capretto al forno, contorni: patate al forno, pomodori gratinati e radicchio ai ferri…un’altra maratona gastronomica vinta dai Cicloviaggiatori!
TAPPA 3
SAN BENEDETTO IN ALPE – CASA RIFUGIO DEL GIOGO
51 km + 1.450 m
Questa è sicuramente la tappa più impegnativa dal punto di vista altimetrico del nostro cammino. Lasciamo San benedetto in Alpe in direzione Marradi per affrontare subito il primo dei passi della giornata: passo Peschiera e dopo pochi metri la strada si inerpica per raggiungere con una serie di tornanti l’antico borgo del Poggio. Da qui la pendenza si attenua e la carreggiata si stringe e transitiamo per brevi tratti all’ombra di faggi e tigli. Dopo poco più di 5 km ci fermiamo alla fonte di Rio Secco per ricompattare il gruppo e rinfrescarci. Altri 2,5 km e siamo al Passo Peschiera a mt. 925 s.l.m. Dopo il passo della peschiera la strada prosegue in discesa per un breve tratto poi ricomincia a risalire per circa 1 km fino al Passo Eremo a mt. 921 s.l.m il nostro secondo passo della giornata. Da qui scendiamo in una lunga e decisa discesa in un alternarsi di boschetti ad abeti, pioppi e faggi fino a raggiungere Marradi.
Da San Benedetto a Passo Peschiera Km 8 dislivello mt. 435 pendenza media 5,13%
Tratto iniziale fino al Poggio con pendenze oltre l’8% brevi punte al 10%
Da Passo Peschiera a Passo Eremo Km 2,8 di cui solo 1 di salita con pendenze oltre l’11%
MARRADI
Sul toponimo del paese esiste una curiosa leggenda legata ai primi anni dell’esilio di Dante: durante la fuga del Poeta da Firenze, egli denunciò il furto del suo cavallo e gli venne obbiettato che gli abitanti del luogo erano tutti galantuomini. Al che, Dante rispose con un arguto gioco di parole: “Sì, galantuomini, ma-radi!”. Le origini di Marradi sono in realtà molto più antiche dei divertenti aneddoti danteschi: qui vissero i Liguri, gli Etruschi e i Celti prima della conquista romana e la costruzione della strada, la via Faventina, di collegamento tra Faventia (Faenza) e Florentia (Firenze). Nel Medioevo arrivarono i Goti e i Longobardi, e quindi i Conti Guidi di Modigliana e i Manfredi; fino al periodo signorile durante il quale le nobili famiglie dei Fabroni da Pistoia e dei Torriani da Milano, qui esiliate, non vollero rinunciare agli agi e all’eleganza degli spazi cittadini, costruendo palazzi, ancora visibili passeggiando lungo il centro storico. Dal 1428 Marradi appartiene a Firenze: i Lorena intrapresero grandi opere pubbliche, quali la costruzione del Teatro degli Animosi, la ricostruzione della chiesa di San Lorenzo, un nuovo ospedale e la nuova via Faentina, alla quale nel 1893 fu affiancata la ferrovia.
Dopo la sosta pranzo riprendiamo a pedalare per affrontare l’ascesa al terzo passo di giornata la Colla di Casaglia e prendiamo proprio la via Faventina, l’odierna strada provinciale SP 302, mitica per i podisti di tutto il mondo perché teatro della famosa 100 km del Passatore. Dopo 9 km sotto un sole che inizia ad essere estivo arriviamo a Crespino sul Lamone dove ci fermiamo a fare acqua alla fonte. Mancano ancora pochi km per arrivare alla Colla Casaglia a mt 913 s.m.l. ma attenzione la salita non è ancora finita manca ancora 1,5 km prima di arrivare al sentiero sterrato che arriva al passo del Giogo il nostro finale di tappa. Subito dopo la Locanda della Colla svoltiamo a destra e continuiamo a salire fino alla segnaletica, sulla sinistra, che indica il sentiero spartiacque appenninico. Sono 10 km di spettacoloso sterrato che attraversa un bellissimo bosco di conifere. Tratti in discesa si susseguono a tratti in salita ma tutti sempre godibilissimi e mai tecnici. La conclusione è l’apoteosi il pendio alla nostra sinistra è letteralmente coperto di ginestre chiaramente le foto scattano a go-go.
La nostra tappa si conclude poco sotto il passo al rifugio Casa del Giogo dove ci aspetta Paola che ci ha raggiunto da San Piero a Sieve per l’ultima tappa di domani. Il ragazzi del rifugio aprono con noi la stagione 2021 ci accolgono con simpatia e squisita gentilezza. La cena è ottima con prodotti locali e verdure del loro orto: finocchiona, pecorino e fave per antipasto, risotto agli asparagi per primo, arista arrosto con contorno di patate al forno e insalata per secondo, per finire una deliziosa mousse di yogurt con crumble e salsa di fragole.
TAPPA 4
CASA RIFUGIO DEL GIOGO – FIRENZE
61 km + 774 m
Ultima tappa! Oggi prevediamo una giornata tosta non tanto per l’altimetria, sulla carta il dislivello positivo è di 750 m, ma perché il percorso sarà in buona parte su sterrato quindi speriamo vivamente sia tutto pedalabile. Dal rifugio ritorniamo su al passo, i bisognosi di caffeina si fermano per il secondo caffè del mattino poi tutti insieme scendiamo un paio di km per prendere a destra la strada forestale Giogo-Sant’Agata, via di Cavallico. Qualcuno ha paventato l’arrivo di temporali nel pomeriggio ipotesi suffragata dal cielo grigio così siamo tutti d’accordo di arrivare a Firenze prima possibile per cui escludiamo di avventurarci lungo un sentiero tra faggi e castagni per dare un’occhiata al sito archeologico di Montaccianico che si trova sulla nostra strada.
Il sito ospita i resti del castello principale della famiglia Ubaldini, i nobili che dominarono l’Appennino Mugellano tra il XII ed il XIV secolo, dalla valle della Sieve fino alla Romagna. La posizione preminente permetteva di monitorare le rotte commerciali da Firenze alla Romagna e viceversa, grazie alle strade che passavano in prossimità del castello. Il controllo mercantile fu uno dei principali motivi per cui la Repubblica di Firenze tentò più volte la conquista della rocca riuscendoci solo nell’estate del 1306 acquistandone la proprietà per poi distruggerlo integralmente. Dopodiché venne decretata la damnatio memoriae sul sito e il divieto di costruire nuovamente sullo stesso terreno.
Nella Commedia vengono ricordati almeno quattro esponenti della casata degli Ubaldini tutti mugellani per nascita. Pertanto sono questi personaggi che rappresentano il filo conduttore tra il Poeta e questa terra che allora era per buona parte sotto il loro dominio.
Degli Ubaldini cantati da Dante citiamo Ruggeri, arcivescovo di Pisa, in uno dei più celebri canti dell’Inferno ovvero il XXXIII, collocandolo insieme al conte Ugolino della Gherardesca nel girone dei traditori, poiché accusato di aver condannato a morte per fame lo stesso conte con il quale aveva in precedenza congiurato.
Arrivati a Sant’Agata ci fermiamo in piazza per quella che doveva essere una breve sosta quando lo spirito curioso di parte del gruppo non viene solleticato dalla proposta di Silvana: una visita al Museo di Vita Artigiana e Contadina dov’è possibile vedere la ricostruzione del paese con tanto di personaggi in movimento di Leprino. La breve sosta si trasforma così una fermata sostanziosa. Ripartiamo in tutta fretta il partito del temporale in arrivo pedala lesto mentre il partito dei musei perora il romanticismo del Leprino. Usciamo da Sant’Agata, giriamo a destra e subito dopo a sinistra su via Gabbiano. La strada sterrata, che è parte del Cammino degli Dei infatti incrociamo diversi ragazzi a piedi, ci porta fino a San Piero a Sieve dove non tergiversiamo oltre e proseguiamo in direzione Barberino del Mugello. La salita al castello del Trebbio è piuttosto impegnativa e il tasso di umidità oggi rende tutto un po’ più faticoso. Lasciamo il castello alle nostre spalle e proseguiamo dritto seguendo la segnaletica CAI Croci di Calenzano. Il fondo del sentiero è buono salvo qualche pozza d’acqua da aggirare, alcuni tratti in salita sono un po’ più impegnativi ma in generale il percorso è bello e richiede solo un po’ di attenzione in alcuni tratti in discesa per i meno avvezzi alla mtb. Torniamo su asfalto e la discesa su Legri è in picchiata. Nonostante la lunga sosta fuori programma a Sant’Agata siamo in perfetto orario e anche il partito del temporale è più rilassato, complice il sole spuntato a sorpresa, tanto che ci concediamo una sosta birra fresca al chiosco sul lago. Siamo quasi in dirittura d’arrivo ma un interruzione stradale per lavori ci costringe a lasciare la traccia caricata sul gps allora improvvisiamo un’entrata in Firenze da Sesto Fiorentino seguendo la ciclabile Alfredo Martini.
Manca veramente poco all’arrivo quando inizia a piovere…pazienza conquistiamo Firenze sotto la pioggia anche questo fa parte della commedia della vita.
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