REQUIEM PORTOGHESE
E ora, José?
La festa è finita,
la luce si è spenta,
la gente è partita,
la notte è ghiacciata,
e ora, José?
e ora, che è di te?
di te che non hai nome,
che prendi in giro gli altri,
di te che fai versi,
che ami, protesti?
e ora, José?
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Carlos Drummond de Andrade – José – 1942
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…ma che cosa c’e’ in fondo a questa notte,
quando l’ora del lupo guaisce
e il nuovo giorno non arriva mai
e il buio è un fischio lontano che non finisce;
di minuti lunghi come il sudore
di ore che tagliano come falci…
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Francesco Guccini – Signora Bovary – 1987
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Ore infinite come costellazioni e onde
spietate come gli occhi della memoria
altra memoria e non basta ancora
cose svanite facce e poi..
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Fabrizio de Andrè – Anime salve – 1996
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REQUIEM PORTOGHESE
Era tempo di lasciare il Portogallo o che il Portogallo mi lasciasse andare. Avevo però dei conti in sospeso con persone e luoghi, con il tempo, avevo dei circoli mentali da concludere e degli eventi da rivivere, forse solo da ripensare. Dovevo andarci per un’ultima volta.
Mi sono preparato bene, credo di aver procurato tutto il necessario. Tanti “cuaderno escolar” trovati da un venditore di libri usati a Tomar, i tre volumi necessari della vecchia, romantica “Guia de Portugal” con i fogli colorati di rosa e i segnalibro di cotone con il verde e il rosso della bandiera portoghese, presi da Bertrand a Lisboa. E tanto perché non ci siano dubbi……. Le mie tre penne stilo (una ha la mia età) costruite a Torino da un’azienda fondata nel 1919 dal ricco mercante tessile Isaia Levi, la boccetta di inchiostro blu francese e il mio grande orologio da polso “Portoghese”, costruito fin dal 1939 dalla IWC di Schaffausen, nella Svizzera tedesca, per un mercante portoghese che forse ci vedeva poco, con un grande calibro da tasca.
“Il viaggio è fatto?”
“Nao! A viagem foi uma alucinaçao.”
Luoghi, tempi, persone, forse, potrebbero aver vissuto un’altra esistenza. Il percorso si muove da Lisboa a Rio de Onor, su nel Tras-Os-Montes, al confine con la Spagna, una virgola rovesciata dentro di me e dentro quelle terre.
Giorno zero Lisboa (odore di mare e di lontano)
Il volo 837 della TAP da Roma non fa il solito giro trionfale sull’Atlantico e sull’estuario del Tejo ma si infila nella pista di Portela da nord est, quasi di soppiatto tra i campi e le strade anonime dell’Estremadura.
È molto presto, ho tutto il tempo per rimontare con estrema calma la bicicletta e raggiungere con indolenza la mia Pousada in Praça do Comercio, che odora di mare e di lontano. Partirò domani per il Trás-os-Montes. Oggi ho due cose da fare: andare a trovare uno scrittore al Cemitério dos Prazeres e salutare un mio amico gatto, musicista-cantante, a Benfica. Devo molto del mio amore per il Portogallo ad Antonio Tabucchi. Gli devo molto e moltissime scuse per aver usato, malamente, la sua opera e i suoi personaggi. Magari potrà essere un modo per rendergli un omaggio e ringraziarlo… Ho avuto la fortuna di incontrarlo su un volo Alitalia da Lisboa a Roma tanti anni fa, mi mise a parte di un gran segreto sul Portogallo e mi indicò un ristorante a Lisboa dove ancora facevano un gran Sarabulho.
Il gatto del Palácio dos Marqueses de Fronteira contribuì a cambiare il mio modo di parlare e forse la mia vita.
Primo giorno da Lisboa a Alcacer do Sal 82 km + 576 mt (odore di gelsomino)
Parto presto, attraverso il mar de palha in battello fino all’outra banda, a Montijo, questa volta, non sbaglio strada e prendo la nazionale per Setùbal. Ma, ci sono troppe rotatorie, capannoni, asfalto nuovo, traffico. Dopo Pinhal Novo, mi fermo sopra il ponte che scavalca l’autostrada: corsie su corsie, raccordi che girano, rumore di motori e grandi camion.
“Dov’è finito il mio Portogallo arcaico?”
A sud, sopra la montagna, il ventoso castelo-pousada de Palmela mi osserva silente. Proverò a giragli intorno da ovest, ci saranno salite e forse polvere ma la strada ordinaria è troppo pallosa.
La scelta si rivela indovinatissima. Il castelo mi sovrasta scuro ed arcigno ma verso sud un anfiteatro scintillante di grazia si apre verso il mare e la città, cipressi e pini marittimi e tralicci elettrici arredano la stradina che scende sinuosa e stretta fino a Setùbal. Poi tutto è tranquillo e liscio, in battello approdo alla penisola di Troia, da Comporta la N 253 scorre tra pini a ombrello e basse terre fino al ponte di legno sopra il Sado proprio sotto il castelo di Alcacer in trono sopra bouganville e gelsomini.
I Baffi sono i suoi e anche gli occhiali con la montatura sottile di metallo. Il mio amico Martinho Rodrigues da Cunha, ora è il Maitre del ristorante della Pousada do Castelo de Alcacer do Sal. Ci facciamo un sacco di feste, sono anni che non ci vediamo. Gli dico piano:
“Sono passato l’anno scorso al ristorante in via Jardin do Regedor a Lisboa ma non c’eri più e il ragazzo a cui ho domandato ha detto che non ti conosceva.”
Lui sorride con leggerezza e distacco.
Io invece lo conosco dal 1995, da quando per una felicissima intuizione di mia moglie ci siamo fermati a cena in quel pertugio antico in Rua Escolas Gerais su in Alfama. In una crepuscolare contaminazione tra l’electrico 28 che pareva entrasse dentro il locale con tutte le sue rotaie e la campana, con il rumore del compressore del frigorifero e la misteriosa vecchia che dormiva seduta nello spigolo in fondo con la torcia elettrica in mano.
Ci fu una intesa immediata e totale. Anche i miei figli, allora di tre e cinque anni, furono folgorati da Martinho e giù a coccole e moine e poi i giorni seguenti era un continuo:
“Perché non andiamo a dare un salutino a Martinho?”
E Martinho divenne una tradizione granitica e costante per almeno un ventennio.
Os Sobrinhos si chiamava il suo ristorante. Ed ecco infatti, che procede verso di noi a passi dinoccolati e allampanato, Osorio suo cugino, con gli occhi grandi e un tantino spiritati. Gli chiedo.
“Non è che in cucina c’è anche Lucinda?”
E loro all’unisono:
“Claro que si!”
E ancora insieme
“Ha preparato la Chanfana!”
E infatti poi è proprio lei che mi porta il “capretto al vino rosso” come diceva Daniele, con le fumose origini dal fatto di voler nascondere il cibo agli invasori africani islamici o ai soldati di Napoleone.
Da lontano mi urla:
“Boa noite Andrea!”
Stento a riconoscerla, con la formale candida divisa da cuoca, me la ricordavo tutta colorata e con una bandana messa di traverso sulla testa, che faceva uscire da di là del vetro della piccola cucina fumi, odori, rumori, sapori e la sua tonda faccia sorridente.
Si siede e senza nemmeno che glielo chiedo mi fa:
“Io la preparo cosi come mi insegnò mia madre a Lousà nella Beira…”
Secondo giorno da Alcacer do Sal a Evora km 80 + 900 m (odore di limoni)
Suona la mezzanotte, sono ancora al ristorante a chiacchierare con Martinho, su quel fantastico terrazzo notturno e bianco, che sa di gelsomino, sopra l’Alentejo. Ha trovato in cantina un Porto del 1992, “L’anno di Valeria!”
Sottolinea complice.
Non sono più tanto preparato per il Porto, sono diventato poco sensibile alle sue finezze antiche e ultimamente preferisco il più semplice vino di Xerex “Pedro Ximénez” per i miei lunghissimi dopocena di meditazione, ma vaglielo a dire ad un portoghese che ti piace un vino spagnolo dell’Andalusia. E poi quel vintage è “Concentrated, tannic and fruity; best are classics…” e potrebbe ammorbidirsi ancora un po’.
“Un Porto cosi, appena un poco brusco, ti servirà a tenerti sveglio!”
Mi fa Martinho e poi continua:
“Solo un matto come te poteva pensare di partire in bicicletta di notte per essere dentro una poesia di Miguel Torga.”
Mi osserva compiaciuto per il mio imminente viaggio notturno. Gli è anche simpatico quel medico condotto e fine poeta, schivo e solitario del suo Portogallo del Nord.
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Lasciatemi passare,
non ditemi nulla
vado per la mia strada
pieno di notte e di luna
Lascatemi passare.
Vado a bere acqua di sogno a qualche fonte
O a raccogliere gigli in un giardino che io so, laggiù
Vengo dalla terra di tutti, dove vivo
E dove ritornerò prima dell’arrivo della luce
Lasciatemi passare ora
Che vado pieno di notte e solitudine
A diventare una stella nel suolo.
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Poco dopo esco sul piazzale acciottolato in discesa, le cicogne, dentro i nidi impirati sugli alti pali dormono, dormono anche quelle, solitamente impiccione e ladre dei legnetti per i nidi, sopra il campanile della igreja do Espirito Santo. Percorro una breve discesa fino alla rotatoria ad est del ponte sul Sado, dopo la praça de touros sono fuori del paese, passo sotto l’autostrada e sono subito “pieno di notte e di luna”. La pianura è larga, la strada solitaria e muta, mi fanno scudo prima, i pini ad ombrello e poi la bella luce penetra tra le mie querce alentejane. Urlo alla luna e alla notte:
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Deixem passar quem vai na sua estrada.
Deixem passar
Quem vai cheio de noite e de luar.
Deixem passar e não lhe digam nada
Deixem, que vai apenas
Beber água de sonho a qualquer fonte;
Ou colher açucenas
A um jardim que ele lá sabe, ali defronte.
Vem da terra de todos, onde mora
E onde volta depois de amanhecer.
Deixem-no pois passar, agora:
Que vai cheio de noite e solidão
Que vai ser uma estrela no chão.
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A Santa Susana la vista di qualche colle interrompe quella corsa estatica, allucinata, forse appena etilica. Prendo la deviazione verso destra, passo il piccolo cimitero, poco più avanti la via termina addosso al lago artificiale. Mi butto sul sabbione a braccia e gambe aperte a guardare il cielo.
“É um lugar maravilhoso para ser uma estrela no chão!”
Mi sveglio che è diventato giorno, ora il percorso si muove in uno “scialbo mattino non più argentato di stelle.”
A Santiago do Escoural… A Nossa Senhora da Boa Fe …
Dovrei ora arrivare, per un percorso rurale, come recita la carta Michelin, al sito megalitico di Almendres. Ma sul terreno ci sono decine di stradine, tracce, che iniziano, confluiscono nel nulla e svaniscono. Scendo e spingo la bici a piedi prima sopra pratoni poi tra arbusti e macchie alberate fino alla salita alla sommità del colle dove è piantato il recinto di menhirs.
Poi la strada è facile fino a “Evora la bella”. Ci ero stato nel passato con la bici da corsa ed era un supplizio con le ruote sottili e gonfie l’acciottolato del centro storico, ora con le ruote larghe e morbide si va alla grande. Salgo fino alla piazza. Addossato al basamento del tempio romano, un giovane alto e grosso con il bandoneon, suona un tango lento e singhiozzante. Non mi curo del suo aspetto, forse da gitano del Sud e del suo odore di sandalo. Mi rifugio sparato dentro la Pousada dos Loios:
“Boa tarde Senhor Joao!”
“Boa tarde Senhor Agostini! Benvindo! Estava muito tempo que non ficava em Evora!”
Mi vado subito a nascondere nel mio quarto imperial, che odora di limoni. La giornata è stata troppo lunga.
Ma, non so quanto tempo fosse passato, che il Senhor Joao bussa concitato alla porta e mi chiama…
“Saranno rogne?”
Terzo giorno da Evora a Flor Da Rosa km 105 + 950 mt (odore di legna ardente o di piante verdi della selva pluviale)
Piove da stamattina presto, non sarà un bell’andare ma preferisco che sia comunque andare, non vorrei trovarmi ancora invischiato in un’ulteriore incontro col mio connazionale di ieri. Acqua sulla piazza e su tutta Evora, la pioggia tiene fermi i gabbiani, le cicogne, i piccioni e i passeri, e pure tutto il paesaggio e tutte le nuvole da corsa a cui sono abituato qui. Non sono avvezzo a questo Alentejo lento, umido, untuoso, anonimo e sconosciuto. Ho qualche problema a prender la via per Igresinha e Vimiero, dopo Casa Branca ho anche problemi alla bicicletta, un rumore noiosissimo sale vibrando dalla ruota anteriore.
“Che palle e non bastava tutto quel magone di pioggia, magari non sarà tanta, ma è da troppo tempo che stufa!”
Mi fermo, guardo in giro.
“Ma devo guardare dentro la bicicletta!”
Cambio gli occhiali, devo fare un lavoro di fino, ma le lenti si bagnano e s’impastrocchiano subito. La faccenda non si mette affatto bene, ma sono qui da solo, non so da che parte cominciare: i raggi ci sono tutti e tutti sani, i fili della dinamo sono attaccati al loro posto, il mozzo è fissato bene, credo, il fanale è un poco storto ma stabile… Quel maiale del parafango invece balla, il bullone di destra non era sufficientemente serrato. Arrivo a Sousel poi prendo la N245 per Frontera. Non ho fame o forse ho fame già da un po’ ma non ho voglia di mangiare, vado avanti così da ore. Mi fermo ad Alter do Chao che è tardi per il pranzo e presto per tutto il resto. Ma il locale è accogliente, asciutto, caldo e simpatico, la ciotola di polvo condito con pezzettini di aglio e fili di cipolla è emozionante, o Patrão mi versa un vino bianco freddo, e sulla condensa che si forma sul bicchiere, intravedo riflessa l’aura di quello che sto cercando.
È la rinascita! Mi potevo fermare prima, molto prima, ma come dicono ormai in tanti:
“Son mona!”
Tra Alter do Chao e Crato piove ancora ma mi accorgo di quello che mi circonda: colli e colli e querce. I graniti della Pousada Convento Fortezza de Flor da Rosa sono immersi nel nulla incognito dietro le punte dei cipressi che spuntano dalla nebbia che sommerge il pratone. Sono compiaciuto di essere arrivato. Entro e mi accoglie l’aura della legna che arde nel camino.
“Finalmente a casa!”
Più tardi, esco dal mio quarto ricavato nella torre, il 401, appena scendo la stretta scala che dà sulla sala del camino, l’odore della legna che arde è sovrastato da un’antica traccia della memoria. È la terza volta che mi imbatto in quel penetrante profumo di piante verdi della selva pluviale.
Fu al principio il profumo della prof. di italiano della terza liceo, nel 1972, indimenticabile lei, perso invece nel nulla il Dolce Stil Novo e molto Dante Alighieri, per sempre. Entrava in classe dentro quella stordente bolla umorale con stivali di pelle rosa fino a sopra il ginocchio, pantaloncini cortissimi di pelle rosa e la camicetta generosamente sbottonata.
Ritrovai lo stesso profumo nella Selva Lancadona tra Chiapas e Guatemala nel 1986, ero con mia moglie. La selva sorda e compatta, la vegetazione eccessiva e barocca umettava continuamente il nostro spazio di nuovi umori caldi e spossanti forti, all’olfatto e fluidi, lei aveva un vestito di cotone leggero, molto corto, bianco, stretto alla vita da una cintura di lana grezza di colore verde smeraldo molto intenso, e sostenuto con due sottili strisce di stoffa con le spalle scoperte, come la schiena e le braccia.
Ora di nuovo, qui nell’Alentejo del nord la stessa essenza. Seguo la scia verso il ristorante. Isabel ha ora quel profumo. Isabel mi aspetta al tavolo.
La conobbi anni fa al Museu Ciencia Viva di Estremoz, lei era la guida e io l’unico visitatore. Ambedue avevamo una laurea in geologia, la invitai a cena e lei accettò. Ci incontrammo di nuovo nei miei successivi viaggi in Portogallo, insieme visitammo le vecchie miniere della cintura di pirite del sud della Penisola Iberica.
Ma Isabel non poteva essere stata e non avrebbe potuto essere la Moura Encantada che ho cercato per anni. Aveva i capelli cortissimi di un biondo dorato che teneva acconciati in modo da produrre delle linee in rilievo più chiare, quasi bianche, come a sembrare delle appena spumose creste d’onda sulla superficie dell’oceano. Quelle onde dalla sommità del capo si irradiavano sulla nuca, all’indietro, verso l’esterno ed erano via via più corte tanto da sembrare le volute di una elegante conchiglia marina. Se non avessi lì accanto a me la sua pelle chiara potevo pensare a una testa ritratto in bronzo di Ife o a una ragazza del Burkina o del Mali. Le orecchie risaltavano su quella testa liscia, i lobi erano forati e segnati da due piccole perle. Gli occhi molto grandi profondi e grigi, propensi allo stupore, erano comunque il centro d’interesse del suo volto, attiravano lo sguardo in uno spazio profondo e denso, uno spazio insondabile e lontano, strano e interessante, nuovo. Erano una pozza di interesse, un risalto magnetico e tenue sulla sua pelle che invece era accuratamente abbronzata. O chissà?
Quarto giorno da Flor da Rosa ad Alcantara km 113 + 1175 mt (odore di rosa)
Una bassa nebbia gocciola morbida attorno ai rotondi mamelloni di granito che guidano l’andare di stamattina verso Alagoa e Castelo de Vide. Il paesaggio muliebre e verde mi sente circuire le rotonde colline e salire verso la Serra de Sao Mamede.
Castelo de Vide è la più bella città dell’Alentejo e del Portogallo. La città è bianca, precisa attorno alle sue vie lastricate in rapida salita, strette e piene di piante addossate ai muri delle case, che curate e coccolate escono dai vasi, circondano le porte, raggiungono i piani alti. Sono fucsie, buganvillee, gelsomini, rose che, qui con visibile amore, diventano alberi. L’acqua termale e storica, sgorga ancora lì in fondo alla città dalla Fonte da Vila. È ancora intatta giù in basso in fondo alla Judaria. Il tempietto di roccia contiene i quattro zampilli sotto il tetto e in mezzo a sei esili colonne di calcare. Attorno alla mina da agua una piazza forse triangolare in pendenza, nel lato più basso risaltano le più belle porte di Alentejo, quelle che, come dice Saramago, sono lasciate in amorevole eredità dai vecchi ai giovani che le dovranno curare come tesori inestimabili della loro storia, della loro famiglia e del loro Portogallo. Castelo de Vide rifulge per l’amore dei suoi abitanti per l’esterno delle case per i luoghi degli altri, per i luoghi di tutti, per i soli luoghi che da turista mi posso appropriare, per me è toccante questo loro interesse per i miei desideri e le mie necessità nel loro Portogallo.
La strada sale ora lenta verso il confine, passa il bivio per Marvao, imprendibile e tagliente sopra la montagna. Appena vedo il cartello blu con le dodici stelle gialle con al centro scritto Espanha, il mondo si dilata. È sempre così la Spagna, è esageratamente più grande del Portogallo, le città sono lontanissime, le montagne addirittura nell’infinito. Arrivo a Valencia de Alcantara, troppo bianca e troppo piatta. Oltre, la Ruta National 521 attraversa la steppa estremenha. Dopo Membrio nella Ruta de Extremadura 117 le due linee bianche dei bordi e quella tratteggiata del centro tendono ad unirsi, anche loro, nell’infinito e c’è solo quello da vedere e da pensare.
“Non è un viaggio!”
“è studiare la matematica!”
Alcantara, lo dice anche la parola, è il ponte sul Tago, costruito all’inizio del II secolo, regnante l’imperatore Traiano, ma è anche una città con conventi e archi e case e gente, costruita appena sopra il fiume che taglia profondamente gran parte dell’Iberia. Ma ahimè, è bassa, spelacchiata, solo bianca e con quell’intraducibile velo di polverosa tristezza estremenha che riesce a scomparire solo a Caceres.
Quinto giorno da Alcantara a Penamacor 72 km + 1055 mt (odore di scisto, selce e granito)
Di là dal ponte ancora con il fondo basolato da larghe pietre, oltre il blu del Tago, c’è ancora il blu dell’altro piccolo fiume, il rio Erges, che fa da confine con il Portogallo. Attraverso un altro ponte romano e appena dopo la salita, nel villaggio di Segura, di nuovo i blu, i gialli e bianchi scintillanti del Portogallo. La strada romana da Merida conduceva ad Egitania, oggi Idanha-a-Velha, dove forse nacque Vamba, re dei Visigolti. Ho avuto sempre un debole verso quei barbari sfigati. Che non sapevano fare nulla e hanno abbandonato alla malora lo Stato, ma sono riusciti a lasciarci dei tenerissimi segnali artistici, da ricercare con il lanternino in posti imboscatissimi in tutta la penisola iberica: Quintanilla de la Vinha, in vecchia Castilla vicino a Burgos, San Pedro della Nave, nella provincia di Zamora, in reconditi e minuscoli lapidari qua e là e poi il monumento più bello di tutto il Vasto Mondo, la Capela de São Frutuoso de Montélios, vicino a Braga.
Il percorso non è trafficato, dopo Zebreira viro a nord, passo Acafozes e non mi rimane più nulla da pensare, nulla da guardare, la strada è diritta e piatta come me. Ma mai abbassare la guardia! La sfiga è sempre pronta e il cataclisma incombe.
Il gran frastuono di motori, l’orrendo muggito del clacson mi terrorizzano più dello stesso autocarro che mi sfiora mentre mi sorpassa. Il camionista del “veiculo longo” è solo un povero imbecille o e anche un grande stronzo? Mi sa tanto che è l’uno e l’altro e forse qualcosa di più. Del resto, non poteva essere possibile che in Portogallo ci fossero solo brave persone.
Il villaggio di Idanha-a-Velha è solitario e lontano come deve essere, nel parcheggio un camper chiuso con nessuno dentro e due automobili tutti con targa portoghese. La gran porta Norte, granitica e dai poderosi bastioni rotondi, non porta in nessun luogo, c’è un gran muro dietro, ci si può anche salire sopra. Io penetro nell’Aldeia Istorica dalla stradina alla destra della porta. Ritrovo tutti i sassi che avevo lasciato a tracciare la mia presenza nel passato, è la quarta volta che vengo in questo villaggio a giocare a nascondino con i Visigoti.
Riuscirò a incontrare il re Vamba? È bene che finalmente si faccia vedere, questa è l’ultima possibilità!
Sesto giorno da Penamacor ad Almeida 94 km + 1475 mt (odore di ossidiana e capra)
Dopo Sabugal è tutto nudo deserto, non c’è nulla oltre la bassa erba in tutto il mio orizzonte, la strada è muta e solitaria. Inizio a serpeggiare a caso sull’asfalto, attorno alla riga di mezzo:
“Sono in idiota! Lo so, ma non c’è nessuno in giro.”
Mi viene in mente la foto di quello sfigato di Fernando Pessoa con un bicchierino di acquavite, in flagrante delitro. Richiamo dalla memoria Las ridiculas cartas de amor, le lettere alla fidanzata, ripeto ad alta voce, urlo al Vasto Mondo alcuni suoi versi: Tabacaria, Aniversario…
Gioco con la mia ombra sull’asfalto che si allunga e si allarga ai miei movimenti e alle inclinazioni che faccio assumere alla bici, l’ombra si inspessisce, si fa densa e nitrisce sotto il pesante saio:
…per quanto, senza fine, camminerai in me?
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Do vale à montanha,
Da montanha ao monte
Cavalo de sombra,
Cavaleiro monge,
Por quanto é sem fim,
Sem ninguém que o conte,
Caminhais em mim.
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A Castelo Mendo mi fermo appena fuori della porta, ad arco tondo, tra due torri quadrate di granito. è guardata da due leoni, o due verri. Le teste degli animali sono rese irriconoscibili dal tempo, dal passaggio della gente, dagli urti delle ruote dei carri. Una targa ricorda la visita del presidente della Repubblica del 31 marzo 1988. Varco la porta a piedi e spingo la bici, ho timore di dare fastidio. Non c’è nessuno, la strada sale tra piccole case di granito che al piano superiore propongono leggere verande. Alcune con colonne con tanto di capitello e tutti i crismi della classicità ionica. Questo posto è uno scrigno di delicata, sommessa arte: a volte le finestre vengono circondate, meglio coronate, da esili fregi scolpiti a linee flessuose e vagamente manueline, ai lati delle finestre escono dal muro di granito delle mensole lavorate e variamente cesellate con figure di uomini e animali. L’entrata di una casa propone ai sui lati delle strane finestre con massicce colonnine di granito che le fanno diventare delle minuscole bifore, squadrate e scure con assonanze al le alfiz delle architetture arabe e mozarabiche.
Nella piazza del pelourinho, assolutamente solitaria, il sole gioca con le forme e i colori. Una croce di granito appoggiata alla chiesa ingigantisce la sua ombra, precisa e nera, sul muro bianco e liscio. La scala grigia sale esile e ripida all’esterno del campanile che termina con un’acuminata copertura piramidale dove rimane nascosto un piccolo quadrante nero di orologio. Mi siedo sul basamento di cinque alti scalini, della colonna del pelourinho, che sembra una lanterna dalla testa esagonale. Non ha bracci sporgenti, non ferri a cui attaccare i condannati, solo una fila di lampadine avvoltolata attorno alla roccia rugosa. Le lampadine proseguono verso un tetto da una parte e verso la veranda al piano alto di una casa, dall’altra. Dalla casa di fronte, un piccolo balcone, investe la piazza con una cascata di colore rosso dei garofani che traboccano dalle volute nere del ferro battuto. In alto persiste l’azzurro intenso del cielo. Abbasso finalmente lo sguardo, non rimane che ascoltare attentamente i rumori: uccelli e cani che abbaiano. Abbaiare a tratti di cani e un costante tappeto del cinguettio di piccoli uccelli che abitano i tetti e le colline attorno al villaggio. Improvviso e amplificato mi arriva lo scalpiccio di zoccoli sul granito della strada. Cerco il rumore nuovo, là in fondo sta salendo una vecchia che accompagna una capra e degli asini. Li avevo incontrati prima, lontano dal villaggio, con il primo somaro che trottolava verso il paese a testa bassa con le due zampe destre impastoiate da un lungo laccio di cuoio e quello dietro chiazzato di grigio con le gambe libere lo seguiva, ultimo animale una capretta anche lei scura. Eccoli di nuovo dietro la fontana che sta vicino alla chiesa matriz. La vecchia è completamente vestita di nero, anche con un fazzoletto nero in testa, legato alla moda dei pirati così da lasciare da una parte una lunga pezza di stoffa pendolante su una spalla. Qui al nord non c’è nessun altro copricapo sopra come il cappello nero di panno a larghe falde che portano le donne in Alentejo o in Algarve. La saluto:
“Bom dia…”
Lei mi risponde, forse troppo velocemente di quanto mi sarei aspettato:
“Bom dia…”
La capra invece si ferma e mi guarda, ruota la testa come fanno spesso i cani, tende verso di me il suo muso antico e sacrificale, mi fissa dai suoi occhi posti su due piani disuguali, sembra curiosa di me, sembra che lei mi osservi. Invece tutto si ferma, i rumori, gli odori, le immagini non ci sono più, rimangono solo quei due profondi pozzi neri di ossidiana dove si perdono tutte le sensazioni fin lì accumulate. Tutto precipita in fondo a quegli occhi, il tempo è stregato, sospeso, fissato a quegli occhi e forse a quel muso neri di capra. Poi dall’infinito, la vecchia richiama la capra:
“Anda!”
Con tono secco e perentorio. Ma l’animale non si muove e continua a fissarmi. Ma ormai il mondo ha ripreso a funzionare, il tempo a rotolare, di nuovo, attorno al fuso. Sento ancora una volta l’ordine. Sarà per me o per l’animale? E per andare dove? Chi saranno mai veramente la vecchia e la capra che ho avuto la ventura di incontrare?
“Anda!”
Di nuovo più secco e incisivo. Questa volta la capra gira lentamente il muso verso la strada in salita e inizia ad andare.
“Anda!”
Tutti quattro se ne vanno via e mi lasciano lì con la mia ridicola biciclettina.
Tra Castelo Mendo e Castelo Bom la strada passa sotto l’altissimo viadotto della strada veloce che dalla Spagna va a Guarda e che scavalca il profondo vallone del rio Coa. Scende fino al letto del fiume e risale lenta tra massi di granito rosa. Di nuovo sull’altopiano la strada per Almeida è ormai facile breve. I bastioni della porta che penetra la muraglia esterna risaltano su un prato sconfinato e smeraldino quasi con lo stesso sorprendente effetto di una grigio asino dalle smisurate orecchie che mi guarda passare.
Settimo giorno da Almeida a Freixo da spada a Cinta 64 km + 970 km (odore di salnitro e solfo)
Esco dalla chiara città fortificata dalla doppia e stellata muraglia, argine per l’ingombrante e presente nemico di sempre: la Spagna. Ora la mia biciclettina traccia una esile linea sull’altopiano granitico da sud a nord proprio sulla raya, la linea di confine che divide da sempre noi da loro. Potrebbe sembrare di essere in bilico su un affilato spartiacque, su un preciso limes che divide tutto: lingua, padri, madri, fratelli e sorelle, ma anche storie e nomi. Invece è solo un lento piano di granito inclinato verso ovest dove tutto rotola fino al mare: fiumi, uomini e donne e turisti e viaggiatori. Ora l’unica differenza è l’ora. Una di meno di qua, una di più di là.
“Ma non può essere così!”
Due vecchi caccia F16 con le insegne della Força Aerea Portuguesa sono decollati dalla base di Monte Real, vicino a Leiria, e mi sfrecciano sopra la testa verso la raya, da Castelo Rodrigo, lassù a nord, i lampi del cannone, dal monte Marofa il rombo dei mortai. Da Oriente inizia a soffiare, polveroso e fetido, un vento di salnitro e solfo. Avanzano le truppe nemiche, in testa i granatieri del Brandeburgo, i tamburi imperiali, bassi, forti, cadenzati mi vibrano in pancia.
“O saranno i gambas all’alho di eri sera?”
Le tigri di Arkan e i Gurka, con le facce deformate dai colori d’assalto, corrono tra le fiamme e urlano come i demoni nel giudizio finale del timpano di Sante Foy a Conques, nell’Aveyron.
“Che sia arrivato al mio cruento giudizio finale? Ne avrei visti tanti, ormai!”
Mi sarei aspettato per l’evento il Cristo Giudice, assiso in trono tra due angeli, ieratico, bizantino ed orientale, ma puntigliosamente armato di spada che tiene stranamente con la bocca della Staatsbibliothek di Bamberg.
“Invece no!
Sono saldamente nel nostro orrendo occidente.”
I Lanzi, puzzano di grasso di maiale, con gran strepito di ferraglia vengono verso di me. O, anche gli Ussari Alati di Pomerania sono solo ombre tra i fumi fiammeggianti del vino troppo fresco e troppo bianco di ieri sera?
Me lo diceva il maestro dell’albergo:
“Ti conviene aspettare un poco qui da noi, si sta levando il vento dell’Est”.
Ma ora, sopravanzano i cani, i pitbull bavosi e le orde castigliane abbaiano furiose, le falangi di Franco procedono compatte e quelli del Tercio, dopo… tagliano la gola alle ragazze e bruciano i vecchi e le case.
Mi fermo, scendo dalla bicicletta, mi gira la testa. Mi sa che ho la febbre. La bicicletta cade sulla polvere rossa di sangue.
Al centro di tutti e di tutto: lui il traditore, il menino da cartolinha, Il bambino, con i cilindro. Ha un grande cane corso nero alla corda, suona il violino in mezzo a quel campo di battaglia.
“Ma non stava dalla nostra parte, il perfido?”
Suona il primo movimento del quartetto delle dissonanze di Mozart, lì sopra un mucchio di cadaveri in mezzo alla polvere di salnitro e solfo e sembra che voglia prendere per il culo tutto il Vasto Mondo.
La veloce e lunga discesa tra migliaia e migliaia di piante di olivo verso il Douro mi affranca da quell’allucinazione del nostro futuro prossimo. Al Miradouro Alto da Sapinha incontro due cicloviaggiatori polacchi che salgono, vengono da Częstochowa e vanno a Fatima, sono già passati a Međugorje, Loreto e Lourdes. A Barca d’Alva passo il fiume. Il Douro fino all’Atlantico ha scavato una profonda cicatrice che ospita una singolare microclima subtropicale adattissimo a far maturare le uve rosse per il Porto e un ambiente circoscritto dove i villaggi e le cittadine sono incatenate dai suoni intercomunicanti delle campane delle chiese e dall’eco che guizza solo dentro il vallone, solo per l’asse est-ovest. Costeggio il fiume verso est, poi la strada sale fino a Freixo de Espada à Cinta. Bizzarro nome per una città: “Frassino della spada appesa alla cintura”. Quella del re Dom Dinis impegnato nel 1200 in un’altra mitica e miracolosa battaglia con i soliti nemici orientali.
Ottavo giorno da Freixo de Espada à Cinta a Miranda do Douro 92 km +1270 mt (odore di cera e incenso)
Lascio Freixo in un luminoso azzurro, la cittadina mi è piaciuta per almeno tre buoni motivi. È il posto più ricco di gatti di tutto il Portogallo, ha una elegante torre eptagonale e la igreja matriz di un manuelino inaspettato quassù in capo al mondo e vicino ai diavoli della Castiglia. Passo Fornos e da Castelo Branco per Mogadouro e oltre, fino a Mondim, il cielo oltre che ancora più azzurro è diventato altissimo, stratosferico. Sembra di viaggiare sopra un qualche altopiano barocco d’oriente, che so? Diciamo come quello tra la Cappadocia e il lago Van, nella Turchia orientale (ormai abbandonata a Erdogat).
Arrivo nel pomeriggio a Miranda, prima ancora di andare a rivedere il Douro ho fretta di andare dal menino da cartolinha. Devio per il bairro de Santa Luzia e poi entro nella città murata dalla porta occidentale tra le due torri quadrate, ecco la piazza del comune e quindi alla concatedral. Ma qualcosa mi dice che forse mi stavano ad aspettare. La vecchia, una virago poderosa e vestita di nero, seduta su uno sgabello di legno e paglia alla sinistra delle scale che salgono al sagrato, fa finta di fare e di vendere cestini di pizzo. È sicuramente uma bruxa!
La saluto:
“Boa tarde.”
E lei:
“Boa tarde.”
Poi con uno scatto improvviso del volto, attraverso un tono inusitato, confidenziale e, anche inquisitorio, mi si rivolge in seconda persona:
“Da dove vieni?”
E io, sorpreso, ormai sulla difensiva, mentendo appena un poco:
“Dall’Italia, con la bici…”
Ma lei mi interrompe e mi ordina:
“Ma non siete cristiani laggiù in Italia?
Vai subito a vedere il nostro menino Jesus da cartolinha.”
Mi scopre incerto e guardando in alto esclama con presente superiorità e supponente alterigia:
“Cadauno es o dono de su alma!”
“Ognuno è padrone della su anima!”
Poi, falsamente più morbida:
“Non aver paura per la bicicletta qui nessuno te la ruba e poi te la guardo io.”
In fine, con fare declamatorio allarga il suo sguardo interessato e acuto alla piazza, come se ci fosse un pubblico più vasto che solo un mediocre viaggiatore in bicicletta:
“Voi che non credere alle streghe, né alle anime in pena, né alle malefatte di Satana fermatevi vicino a me che vi racconterò una storia.”
Eccola la prova che lei non è la vecchia che prepara i pizzi per i turisti. Conosce perfettamente la letteratura romantica portoghese del 1800, tanto da citare alla lettera Alexandre Herculano.
La storia la sapevo già, ma lei ci sa fare a raccontarla. A tratti sembra proprio un grosso puparo siciliano e si muove a scatti come Orlando e Agramante.
“Miranda era assediate dalle truppe castigliane, erano sotto le mura, i mirandesi affamati e stanchi stavano capitolando quando un ragazzo, un bambino, urlando per le vie incitò la gente alla rivolta. Per miracolo tornarono le forze e la xx di combattere e respinsero e sconfissero gli invasori. Da quella volta si venera il Menino Jesus da cartolinha, lo si porta in processione, lo si mantiene in una teca di legno e vetro, con un guardaroba completo di uniformi e vestiti che gli vengono cambiati di continuo.”
È tempo di entrare.
Lui, il menino da cartolinha, è un pupazzo in piedi nell’altare laterale, con la faccia di plastica, lucida e muta e dalle gote rosate, con la braccia aperte e goffamente vestito di una giacca arabescata come quelle di Totò nel film il principe di Ischia. Ha la spada appesa ad una fascia rossa da ufficiale, il cilindro nero ben calato sulla testa. Lo guardo con una tesa attenzione da un pezzo, in silenzio. Anche lui sta muto come un pesce dentro il suo acquario, in mezzo a una galassia di candele accese e fumiganti, con lo sguardo fisso avanti a sé, non fa una mossa, fa finta di niente. Io non ho il coraggio di dirgli nulla, respiro a lungo l’atmosfera incisiva e penetrante, spessa e niente affatto quieta di incenso e cere orientali, fanatica e calda. Scappo, c’è ancora luce fuori, la bruxa è andata via, la bici è ancora li.
Esco dalla cita murata verso il Douro, oltre la graziosa porta ogivale si allarga il canyon del fiume e il lago e la diga. Mi fermo all’estalagem, pousada degradata.
Nono giorno da Miranda do Douro a Bragança 86 km + 1250 mt (odore di granaio e fiori vecchi)
Il percorso di oggi è caldo e sale e scende dentro profondi valloni tra taglienti e lucenti scisti. Finalmente a Gimonde, cado dentro l’idillio placido e azzurro della confluenza del rio de Onor sul Sabor ma Bragança, la stella di granito che brilla sull’altopiano della letteratura non la vedo. La strada statale va su anonima e calda, si scorge una periferia costruita con grandi scatole di scarpe. Dopo una grande rotatoria la periferia recente e senza metafisica piano piano finisce e il centro è decisamente più civile. Passo a fianco del Sabor che si allarga in un bacino dalle rive sistemate a moderno parco con ponti e mirabolanti percorsi pedonali e strutture socializzanti. Non mi fermo, devo andare a qualche chilometro più a ovest. Ho un appuntamento.
Candida è minuta e con le spalle un poco curve, continua a vestire di nero come ha sempre fatto durante i suoi 81 di vita. Sono rimasti in tre fratelli sopra gli ottanta anni lì al villaggio. Prima erano cinque fratelli, due sono morti. Si fa fotografare lusingata ma con un poco di vergogna, quasi da bambina. Si toglie prima il fazzoletto che ha sempre portato sopra la testa durante tutta la sua conversazione con me e lo risistema e lo distribuisce con più grazia e vezzo.
Candida è la mia guida improvvisata, ma cercata, per la visita al dirupato monastero di Castro de Avela. Monastero fiorente e potentissimo per tutto il medio evo tanto da creare dei gravi problemi con la popolazione locale e di ingerenza con il potere pubblico. I Monaci erano dispotici e possessivi, erano andati oltre la loro regola e oltre le regole del vivere civile. Per limitarli intervenne il Duca di Bragança nel 1457 ed intervenne anche il re del Portogallo Joao III, ma non ne vollero sapere …. Infine una bolla del Papa Paolo III nel 1535 soppresse la comunità monastica e cedette i beni del monastero al Vescovo di Bragança creato per la bisogna. A quel punto la popolazione inferocita assaltò il monastero e lo distrusse. Ora Castro de Avela è anche una aldeia, della immediata periferia di Bragança. Vi vivono circa trenta persone, tutti vecchi che coltivano a mano i campi attorno alle case decrepite. Candida mi domanda da dove vengo?
“Vengo dall’Italia.”
“Sono fortunata questi giorni, ieri…”
Disse proprio “ontem.”
“È venuto un signore norvegese e ora “o senhor” dall’Italia, è un periodo buono per i turisti. Il signore norvegese sapeva la lingua portoghese meglio di Lei.”
“E che palle! Anche i norvegesi mi fregano!”
Candida cura amorevolmente il suo mais, le sue patate e i suoi ortaggi come i pellegrini o viaggiatori o turisti che scelgono di venire qui e cura con amore la piccola chiesa imbiancata a calce che è stata ricostruita addossata agli absidi di mattoni della vecchia chiesa abbaziale. Lo spazio dal tetto di tegole all’intradosso dell’arco dell’abside centrale è tamponato da un muro bianco. Da lontano, dal prato verde, sembra che la piccola chiesa, o cappella, fuoriesca nuova, bianca, liscia, semplice dalla grande abside di mattoni dai toni ambrati, ricca di tre serie di archi ciechi sovrapposti e lesene. Sembra un parto di una figlia semplice e povera da una mamma ricca e pretenziosa. Nell’abside di sinistra vi è stata ricavata la sagrestia, mentre quella di destra è rimasta fuori e aperta al vento, alla pioggia e all’erba.
Candida mi accompagna per la visita. Davanti alla piccola porta di legno verde del lato nord, senza nessuna scultura, ne segno, nulla, sta sdraiato al sole un cane nero, non si muove di li, lo scavalchiamo per poter entrare. Candida gli brontola:
“Cosa fai sempre qui a dormire, vai ad aiutare il tuo padrone!”
Apre con la grossa chiave di ferro. Mi fa entrare all’interno, oscuro, ombroso, ingombro di mobili e attrezzature con un odore denso, penetrante e pervasivo di granaio e di fiori vecchi. Accende le luci, mi chiama, mi incita:
“Seguimi!”
Arriva in fondo all’abside tocca il retablo di legno dorato, me lo fa toccare lo batte.
“Questa Tallha Dourada è del 1600, è indipendente, sta su da sola.”
“Vedi, là.”
Indicando una scala di legno che sale verso una parete interna tra la nave e la sacrestia.
“Li una volta c’era il pulpito, ora non più, il vescovo ce lo ha tolto.”
Va veloce e minuta verso la zona dell’altare dove sono le statue di legno ad altezza naturale della Madonna di Lourdes, della Madonna di Fatima e di Sao Bento. L’altare è ancora pieno di fiori per la celebrazione della festa di qualche giorno fa, la statua del santo regge una bandiera, fatta fare a Braga. La statua è piena di fiori, con le mani regge fiori odorosi. Guarda la statua con tenerezza, lo indica quasi a toccare e accarezzare il legno, mi guarda negli occhi e dice con aria trasognata.
“è bello il nostro Sao Bento!”
Usciamo all’esterno della cappella, nella vecchia navata di destra della distrutta chiesa, proprio sotto il fornice absidale restaurato, risalta una arca sepolcrale di granito. Candida mi dice che è la tomba di una ragazza “rapariga” vissuta al tempo del “Conde Mouro” che la doveva sposare. Ma ci si mette di mezzo “O Conde da Serra de Nogueira”, il signore delle montagne a sud di Bragança.
Candida aggiunge e sottolinea, per chi non sa la geografia, che la Serra de Nogueira è una catena piccola non come la Serra de Estrela che è grande, la più grande del Portogallo e che tutti conoscono.
I due conti si fanno la guerra per la “rapariga”, una battaglia, anzi due. A questo punto il racconto si complica. Mi sa che la battaglia è vinta dal conte cattivo, che per stavolta non è il moro ma il bianco, si inseriscono nel racconto anche due leoni. Leoni che ora sono scolpiti nel granito in cima alle colonne di entrata del giardino antistante la cappella e che mi sembravano i solito verri del nord del Portogallo. La ragazza non cede e rimane fedele al conte buono e moro, ma non ho capito bene, ad un cerro punto salta fuori il serpente “uma cobra” che soffoca la ragazza. Alla fine quando finalmente ritorna il conte buono e moro la ragazza è già morta e tumulata nel granito. Le rimase sempre fedele.
Candida conclude il racconto e mi dice che la storia è solo una “lenda”, dentro la tomba non è stata trovata nessuna ragazza. Questa vecchina è meravigliosamente vigorosa e simpatica. Le chiedo se posso fotografarla li mentre siamo appoggiati tutti e due su quel sepolcro di granito e su quella leggenda di conti mori e di ragazze.
Poi Candida mi accompagna ancora fino alla piazza che si apre tra il complesso monastico e il villaggio. Mi dice che il monastero era molto grande era tenuta dai benedettini “los monges reza e trabalha” che avevano un albergo, lei dice propriamente “estalagem”, un bel albergo, per ospitare i pellegrini che andavano su a Santiago de Compostela in Galizia. Ci fermiamo vicino alla bicicletta e con gentile interesse e mi dice:
“Esta bicicleta é do senhor?”
Ed io pronto e soddisfatto:
“Sim! è a mea bicicleta!”
Tocca appena con le dita il grip del manubrio e dice
“Que linda bicicletinha!”
Si assicura che abbia visto le cose belle di Bragança perché Bragança è una bella città lei ci ha frequentato le scuole elementari: il Museo do Abade de Baçal o Castelo e mi esclama:
“Visto quanti lavori stanno facendo!”
Infine si congeda, lei va a cena presto, mi augura un buon proseguimento del viaggio e una buona vita, forse non ha detto proprio “boa vida” ma il significato mi rimarrà per sempre quello.
“Obrigado. Boa Vida. Adeus Candida!”
Decimo giorno da Bragança a Rio de Onor 30 km (odore di polvere, ombra e velluto)
Finalmente l’immagine della cittadella di Baragança, con la luce del mattino, mi entra dalla finestra della Pousada, moderna ma pensata in quel luogo con maestria, annuncia la fine del viaggio, mi rendo conto di essere al bordo della gaussiana. Sono svogliato e lento, non ho entusiasmo di ritornare a Lisboa e cercare lo scatolone e smontare la bici e di tutto quel traffico all’aeroporto. Vado a piedi alla Livraria di Mario Pericle in rua Combatentes da Grande Guerra, ci ho sempre trovato dei degli opuscoli, delle edizioni locali a tiratura minimale, ma oltremodo interessanti. Vado alla cittadella di granito, sempre solitaria, minuta e scura: il castello, la domus pentagonale e romanica, la igreja, la dolente Porca di granito (Il verro totemico degli antichi Lusitani del nord, ancora presente in tutte le piazze del Trás-os-Montes) trafitta dalla croce del pelourinho di granito.
“La legge medievale prevarica la legge antichissima e il cristianesimo uccide il paganesimo e il politeismo!”
Per portare a compimento il progetto e il viaggio mi rimane solo da fare una cosa a Rio de Onor tra i monti del Montesinhos, ancora a sud dello spartiacque con la Galizia ma già sul confine. La comunità del villaggio dovrebbe avere ancora delle proprietà comuni sia di qua che di là e il confine è stato sempre un’inutile esagerazione venuta da lontano.
Il percorso è lineare e breve, nemmeno trenta chilometri, isolato, silenzioso e solo, il più solitario di tutto il viaggio. Il rumore della bici mi ritorna come un’eco della basse conifere che bordano la strada, giungo su un piano spelacchiato con sullo sfondo lontanissimo, là fora in Espanha, lontanissime e larghe colline, non montagne. Dopo una larga piega ad est e alcune curve raggiungo il rio e il doppio villaggio, portoghese e spagnolo, diviso da nulla. Mi fermo ancora in Portogallo ad una fonte con due grandi vasche di scisto. Mi specchio sull’acqua alla ricerca di me stesso, o della parte di me da salutare e da lasciare qui per sempre. È sull’altro canto della strada, seduto di profilo nell’ombra del tramonto sul muretto che più in là diviene la spalletta del ponte che scavalca il Rio.
José ha un bel cappello grigio di velluto a coste sottili che gli copre la testa perfettamente glabra, affilato sul davanti fino a diventare una visiera che incombe su grandi occhiali da sole, molto scuri, di linea moderna e alla moda, credo che siano dei Persol. Le stanghette sono fissate ad una cordicella che gli percorre con uno strano vezzo, il volto fino alla base del collo, tra la grande e morbida orecchia, il naso, affilato e appuntito e il segno esile della bocca. Sul fianco destro tiene appoggiato con noncuranza, sembra li abbandonato, un bastone di legno marrone arcuato alla sommità.
E’ tempo di certificare la fine, e il termine del mio viaggio. Mi avvicino e lo saluto:
“Boa tarde.”
E lui mi risponde:
“Buonpomeriggio! é da tanto che ti stavo aspettando, ma quanto tempo ci hai messo a deciderti?
Ero preparato al commiato ma quando arriva è sempre un momento estremamente delicato.
“Scusa Josè ma non è solo la semplice fine di un viaggio.”
Lui fa finta di nulla, mi chiede quanto tempo ci ho messo con la bici ad arrivare li dall’Italia. Con il capo cosparso di cenere gli dico che sono un viaggiatore debole e mediocre, che ha ceduto al compromesso di usare “o aviao” e che, forse il giorno dopo avrei raggiunto Lisboa “de carro”.
Sorride e mi ripete:
“Cadauno es o dono de su alma!”
Dovrei essere sorpreso ma non ci provo nemmeno un po’. Non ci sarei riuscito. Poi mi saluta, è proprio finito tutto:
“Adeus.”
“E ora?”
Rimango ancora lì, con indolenza ed estrema e voluta lentezza armeggio con le borse e la bici. Dalle colline intorno che sovrastano quel muretto arrivano leggere folate di polvere e suoni, prima vaghi e vani, poi chiari: oboi nettissimi, sono le note di Ein deutsches Requiem di Brahms. Ora sento chiaramente un coro smisurato, i suoni d’una grande orchestra. Poi il canto si assopisce, la polvere continua a mulinare lenta attorno a noi, un breve silenzio, poi Josè si alza e intona nel nulla, con la sua voce da baritono, in tedesco, Herr, lehre doch mich…
Rivelami Signore quale sia la mia fine
Quale sia la misura dei miei giorni
e quando dovrò partire…
Credo che non ci sia più nulla da aggiungere.
Solo che il Portogallo sarà per sempre la mia casa.
De la Media Marcha 18/05/2019
Levitate a tutto lo Vasto Mondo.
Una ultima postilla, per me marginale e spero anche per voi. Il viaggio potrebbe essere, in parte, raccontato con un poco di esagerazione dentro una primavera profumata. I luoghi sono veri e i personaggi sono verissimi: Isabel, Candida, Lucinda, Martinho, Osorio, Josè, Joao, la Bruxa de Miranda, la Bruxa de Castelo Mendo. Altrettanto reali sono stati tutti gli altri incontri, forse il Menino che suonava il violino in mezzo al campo da battaglia, non aveva un corso alla corda ma era comunque un grosso e orrendo cane nero.
Poi se non vi ho “proprio stufato” e se volete sapere cosa è successo ad Evora dopo che il Senhor Joao bussò concitato alla porta della mia stanza della Pousada, potete vederlo al collegamento qui sotto:
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