TRANSARDINIA WEST COAST 2009
mortalità stradale. Parto alle 15.10, sotto un sole carogna, masticando in sottofondo interrogativi vari che riescono ad affiorare oltre la spessa coltre di entusiasmo. Come al solito la ventilazione creata dal moto della bici modera la calura (andare in bici tiene fresco d’estate e tiene caldo d’inverno, sembra elementare, ma per credere all’efficacia di un tale sistema lo si deve prima vivere…). Alla prima svolta nelle campagne pavesi il mio HAL9000, il mio faro nella notte, il ricettacolo di ogni sicurezza, il mio navigatore totale Garmin GPSMap 60CSx, acquistato solo un mese prima, dà miseramente i numeri, non riconoscendo alcuni dei punti programmati e spedendomi in orbita. E’ solo il primo di una serie di piccoli accidenti mappocartografici, dovuti alla mia inesperienza nel gestire mappe, rotte e procedure di caricamento. A Lardirago finisco sulla provinciale. Con una provvida diversione dopo pochi chilometri mi assicuro la sopravvivivenza sino a Pavia, dove giungo per strade secondarie. Mentre sono fermo ad un semaforo in attesa di attraversare la tangenziale di Pavia, riscuoto simpatia in un attempatissimo signore su una macilenta Vespa bianca. Palesemente convinto nella mia nazionalità straniera, come scatta il verde il vegliardo con insospettata vivacità mi incita a ripartire. Sperimento così per la prima volta un atteggiamento di generica simpatia da parte delle persone che rivedrò spesso lungo i miei viaggi. Soprattutto è evidente nel prossimo l’immediata convinzione che un cristiano che intraprenda un tal genere di viaggio non possa CATEGORICAMENTE essere italiano, con effetti esilaranti:
persone che mi salutano direttamente in un inglese caciottar-pecoreccio, oppure in italiano ma parlato più lentamente e ad alta voce (come stessero appunto parlando ad uno straniero, o a un deficiente). Una volta alla stazione di PV mi metto in coda per il biglietto, con tanto di bici, sotto gli sguardi a dir poco straniti degli astanti (terzo genere di reazione ottenuta da chi viaggia in bicicletta, il quarto è il fastidio). Raggiungo il binario seguendo le indicazioni del Capostazione, al quale domando anche a quale altezza della banchina mi debba piazzare per trovare la carrozza bici una volta che il treno sarà fermo. La risposta giunge dopo un breve conciliabolo telefonico con il
Capotreno a bordo del convoglio in arrivo, e mi posiziono di conseguenza. Il treno arriva, mi trovo pronto al punto giusto, isso con molta fatica la bici (comincio a pagare la sovrabbondanza del carico), entro e… ORRORE: scopro che la sistemazione nel vagone è a gancio, con le bici appese in verticale. Nelle mie condizioni rischio di strappare la forcella sotto il peso dei bagagli, o quantomeno di deformarla seriamente. Presento le mie rimostranze al Capotreno sull’impossibilità di seguire lo stivaggio previsto, generando crescente disappunto nel personaggio. Fanno quindi la loro comparsa dal nulla sei scout con bici al seguito. Il nervosismo pervade gli animi a causa del caos che ne consegue, e relativo ritardo sulla partenza del convoglio. Il Capotreno implora pietà con lo sguardo. Con un pò di buonsenso da parte di tutti la situazione è adeguatamente governata con le sette bici addossate l’una sull’altra ai due lati della pilotina. Si riparte, sebbene con 5 minuti di ritardo. Scambio quattro chiacchiere con gli scout: sono un gruppo di Genova che hanno trascorso il weekend a Pavia in bici, sormontati da giganteschi zaini da escursione in quota, contro ogni ortodossìa cicloturistica. Infatti hanno accusato il colpo, soprattutto per le temperature quasi estive degli ultimi due giorni. Li lascio pertanto decantare e mi defilo. L’arrivo a Genova è degno della migliore commedia all’italiana, roba da Pasquale Ametrano, l’emigrato di Carlo Verdone che torna per le elezioni, per intenderci. Il binario di arrivo dei treni lungo la linea da/per Pavia è il numero 17, quindi assai lontano dalla stazione
principale di Piazza Principe: l’unica maniera di raggiungere quest’ultima è attraverso le scale, vale a dire un dedalo di budelli sotterranei scaturito dal peggiore incubo di Escher, oppure opera di qualche epigono in vena di emulazione. Paventando complicazioni di ordine ortopedico/traumatologico qualora dovessi cadere dalle scale reggendo 30 kg di bici, tento senza molta convinzione di accedere all’ascensore, che infatti non dà segni di vita e si dimostra essere un’installazione artistica sul tema del post-modernismo ferroviario. Non voglio incorrere in una reprimenda da parte della Polfer per un attraversamento pirata dei binari, né peraltro sarei il tipo, anche perché con bici al seguito non sarei abbastanza agile da schivare in tempo utile un eventuale Intercity in transito. Insceno pertanto la mia migliore interpretazione strappacuore col primo ferroviere che capita a tiro. Questi, impietosito, mi scorta lungo un passaggio di servizio che taglia il fascio di binari verso il tanto agognato Binario 1, ben accorto a farmi pesare il favore come uno strappo alla regola. Una volta approdato dal lato delle mie più sfrenate fantasie, riesco ad eludere le rimanenti scalinate nonché qualche decina di telecamere di sorveglianza, infilandomi con rilassata faccia di bronzo in un’uscita riservata al personale addetto. Il tragitto per l’imbarco attraverso il porto si rivela essere una riproduzione in scala reale dei sotterranei di Dungeons & Dragons, irto di passaggi vietati e cancellate, dal quale riesco ad evadere dopo un buon numero di tentativi sbagliati sotto gli immancabili sguardi di scherno dei camalli in pausa-sigaretta. Imbrocco alfine la strada giusta, giungo alla Stazione Marittima, ma solo per accorgermi di non sapere dove lasciare la bici, in quanto la biglietteria è ad un piano sopraelevato privo di accessi per le bici. Con un’azione diversiva ai fianchi dribblo due guardie giurate, e riesco a raggiungere il piano sopraelevato con l’ascensore, nel quale infilo la bici in diagonale. Una terza guardia sbigottisce per l’improvvida apparizione potenzialmente foriera di seccature, dopodiché per l’appunto si secca per l’imprevisto, interrogandomi bruscamente sul come abbia fatto ad arrivare sin lì con la bici, forse supponendo la violazione di una dozzina assortita di articoli tra Codice Penale, Codice Civile e Codice Stradale. Confesso tutto sulla barba del Profeta, e ancora in piena verve teatrale con un altro pezzo strappalacrime gli rifilo la bici da sorvegliare mentre io faccio il biglietto, e al diavolo pure lui. Allo sportello Grandi Navi Veloci apprendo non senza sgomento dall’addetto alla biglietteria che i posti in offerta ad 1 Euro, previsti dalla mia certosina pianificazione, semplicemente non esistono né sono mai esistiti, ed il passaggio ponte costa 50 Euri. Stando al tono ed all’espressione ironicamente stupefatta l’ineffabile mezzobusto sottovetro deve sospettare una qualche mia bizzarrìa mentale, però socialmente innocua (“ma pensa te questo qui cosa si è inventato… 1 euro… ma vai a lavorare”). Per completezza di informazione riesco anche a sapere che non esiste a bordo delle navi Grimaldi una doccia collettiva, che invece so per certo esistere sulla Tirrenia. Al diavolo pure le GNV, e mi butto nelle braccia della cara, ma soprattutto vecchia Tirrenia. Recupero la bici sventolando ostentatamente il biglietto sotto il naso della guardia, che ringrazio sentitamente. Dopo avere incassato il tifo divertito dell’addetto al check-in, che in mancanza del classico parabrezza mi appiccica con una manata il tagliando adesivo di imbarco direttamente sul casco, sosto alfine sul piazzale in nutritissima compagnia. Trovo infatti molti motociclisti, alcuni dei quali mi guardano con un misto di compassione e sprezzo. Ottengo anche il supporto degli addetti alla rampa di accesso alla nave, che mi spronano con bizze partenopee profferite a gran voce lungo tutta la scalata che porta al parcheggio superiore. Lego non senza peripezie la biga, col sottile timore di trovarla saccheggiata l’indomani mattina e pressato dalla fretta di accaparrarmi un bel posto dove stendere il sacco a pelo. L’ingresso dal garage nell’area passeggeri del traghetto in calzoncini da ciclista, caschetto in mano e zaino in spalla – senza avere parcheggiato un’auto – è un’esperienza dal sapore nuovo, che trovo tuttora indescrivibile. Trovo un posticino decente per la notte, occupando quanto più spazio possibile, e già pregusto il vaporoso ristoro della tanto agognata doccia, il mio segreto ignorato dai più, che mi è valso la scelta della Tirrenia a scapito delle GNV. L’abluzione si trasforma invece in un supplizio, causa mancanza di acqua calda. Immancabile il consueto rito della partenza della nave dal settore poppiero del ponte esterno più alto.
Altrimenti il viaggio è come se non cominciasse. Telefonate di saluto, panini, gelato, appunti. Buonanotte. Percorrenza: casa-stazione PV 19.5 km.
scorrevole, la discesa è gustosa, ma provo un inquietante presagio circa la risalita lungo quella stessa strada, nel pomeriggio. Porto Palmas, ore 12.00: telo azzurro steso sulla sabbia, biki legata all’ombra, costume, bagno, panino, banane, acqua. Mezz’oretta di molle oblìo sotto il sole. Verso le 13 avverto odore di arrosto: sono io che sto per prendere fuoco. Il sole si è messo a picchiare duro, fa troppo caldo e non mi va di rovinarmi subito. Mi rifugio all’ombra di un pergolato del baretto sulla spiaggia, chiuso perché è lunedì. Cincischio sonnecchioso oscillando lentamente in equilibrio su una sedia fino alle 14.30, mi cambio, ricarico tutto, Polase per endovena e ripartenza ore 15 più o meno. L’intuizione avuta prima dell’arrivo si rivela di una precisione cartesiana: fino a Palmàdula ora sono 6 km di salita non tanto cattiva, però sotto il sole e senza vento. E comunque è la mia prima salita sotto carico. Attingo da un selezionatissimo repertorio di bestemmie in turkmeno antico, roba da intenditori. Ma la vera spinta motivazionale arriva inaspettata da un motorbiker solitario che spunta dal nulla e mi indirizza un pollice in alto, accompagnato da un sorriso e da un’espressione di incitamento. Mi basta per bermi la salita rimanente. Questo era il primo esame per gambe e fiato, e mi sento di averlo passato. Ritornato al paese mi fermo per caffé e scorta di acqua. Altro Polase e via. Rotolo verso Sud (copyright Negrita) lungo un pittoresco vallone erboso, fiorito e totalmente disabitato. Per un bel pezzo costituisco la sola forma di vita umana. Faccio parte del paesaggio, senza limitarmi ad osservarlo. Giunto al bivio di S. Maria La Palma scelgo una digressione ad ovest, verso la Baia di Porto Conte, passando per Torre del Porticciolo e la Pineta di Mugoni. Medito un secondo esame… Nel frattempo un iniziale leggero languorino si tramuta lesto in una voragine nello stomaco, che strepita per essere richiusa. Meglio non esagerare, non sono ansioso di provare l’ebbrezza di una crisi ipoglicemica. Accosto, mi servo di un paracarro per tenere la bici in piedi, banane, altro Polase, e via. Più avanti il secondo Gran Premio della Montagna di oggi arriva al termine del dislivello che da Porto Conte sale al Nuraghe Palmavera, oltrepassato il quale c’é la discesa verso Fertilia dunque Alghero. Un pendìo traditore, in due strappi a pendenza crescente, il primo dei quali ti inganna travestito da pacioso e innocuo falsopiano, per lasciare repentinamente posto ad una specie di rampa di decollo da portaerei, di cui è addirittura nettamente percepibile la curvatura verso l’alto a bordo strada. La terza liturgìa di bestemmie in sanscrito moderno che accompagna l’alternarsi dei pedali si stempera nei successivi 3 km di discesa rapida e ininterrotta verso Fertilia, che mi depositano poi dolcemente lungo il Lido di Alghero. Percorro sul velluto il lungomare che mi porta fino a casa nostra, dove giungo alle 17.30 senza esimermi dal sorridere. Apro casa, poso tutto e riesco per la spesa per l’indomani. Di ritorno col bottino sequestro due pizze alla pizzeria all’angolo, farcite con amianto, catrame, carciofini, olive nere, manganese e solventi alifatici. Belle sostanziose. Una Ichnusa fa da degna cornice al tutto, innescando una tonitruante chiosa gastro-sonora, cui dò libera espressione a scapito della serenità del vicinato. Doccia, bucato, quattro passi per buttare giù la lieta cenetta. Sera fresca e ventilata, che dona sollievo alle scottature solari rimediate in giornata lungo il cammino. Domani Bosa. Percorrenza: oggi circa 70 km – totali 90 km.
a Cuglieri, 449 mt. di altitudine. Trangugio il panino e due pomodori residui, suggellando il tutto con un caffé ad un bar. Il tratto successivo di strada tra Cuglieri e Santa Caterina di Pittinuri sono riassumibili in quasi 10 km di discesa senza girare un pedale, a 45-50 all’ora e schiaffoni di vento da destra, che quindi tendono a buttarmi in mezzo alla strada. Chilometri di rettilineo puntano direttamente al mare. A S’Archittu, dopo un infruttuoso tentativo di intravedere la tanto decantata quanto caratteristica formazione rocciosa (ad arco, appunto, formato dall’erosione del mare e dei venti), mi fermo a comprare acqua e fare sosta toilette. Mi incuriosisco al cospetto di due 28” parcheggiate fuori, equipaggiate di tutto punto ma nel complesso caricate in modo estremamente più leggero della mia. Una volta all’interno ne scopro i proprietari, due signori tedeschi che stanno viaggiando in direzione opposta alla mia, da sud a nord. Auguro loro buon divertimento, in previsione dell’infinita salita che li aspetta. In prossimità della spiaggia di Is Arenas mi sono ripromesso di sciogliere un dilemma e fare una scelta: durante le fasi preparatorie, in un giro di telefonate per sincerarmi dell’effettiva apertura dei vari campeggi, ho appreso che il campeggio Is Aruttas a Mari Ermi (Penisola del Sinis), per raggiungere il quale mancano ancora svariate decine di km, non fornisce ristorazione causa recente incendio. Sono pertanto costretto a sostituire tale tappa originariamente programmata con quello che trovo strada facendo, ben sapendo in questo modo di allungare la percorrenza dell’indomani. Mi addentro pertanto nella amplissima e stupenda pineta di Is Arenas, varcando il cancello dell’omonimo campeggio in cerca di qualcuno cui domandare alloggio per oggi. La ricerca nei meandri del camping è però priva di esiti: non c’é nessuno, ma proprio nessuno, da nessuna parte, neppure ospiti. Onde riflettere sul da farsi mi servo comodamente della toilette, uscito dalla quale permane la totale assenza di anima viva oltre me. Saluto in silenzio gli ignoti – e assenti – benefattori lasciando il campeggio alla sua sorte, e mi installo nell’adiacente camping Nurapolis. Pianto l’accampamento tra un quadrilatero di pini, doccia, bucato che stendo tra i tronchi, pennichella. Il campeggio è già ben frequentato, ed il ristorante va che è una meraviglia. Cena con abbondante pizza, birra & dolce. Le mie facoltà mentali rattrappiscono rapidamente a livello di protoscimmia del Borneo. Deduco che per oggi forse ne ho avuto abbastanza, e mi infodero alle 20.50. Ma mentre sono lì con l’occhietto che vacilla (e anche con lo stomaco in panne a causa della inusuale scorpacciata), una comitiva di crucchi prende possesso della piazzola accanto alla mia, preceduti ed accompagnati da un festoso e vociante fracasso fino a notte inoltrata. Mi attraversano la mente le reazioni dei tedeschi nei film di Fantozzi (“Italiano sempre canta balla baffi neri mandolino”), ritrovandomi però in una realtà a parti capovolte. In pratica non riesco a concentrarmi sul sonno fino alle 23.30, forse anche complice il pisolino del pomeriggio. Stasera nel sacco a pelo si sta veramente bene anche con la maglia a maniche lunghe: è pur sempre Maggio, il ventaccio di oggi si è indocilito in una bella brezzolina tesa e fresca, ma in lontananza c’é sempre il roboante sottofondo del mare agitato che si infrange sulla costa. A causa della tappa anticipata domani DEVO ASSOLUTAMENTE svegliarmi per partire presto. Buonanotte. Percorrenza: oggi 45 km – totali 187 – salita cumulata oggi 665 mt
della fattoria ch e sta facendo da guida alla figlia di un altro proprietario terriero della zona. Il capannone è quello dell’allevamento dei conigli, ma proseguendo nella visita, alla quale mi aggrego, ci vengono mostrati anche i recinti delle capre, i pavoni, i maiali, le galline. Assisto meravigliato ai loro discorsi, ognuno di loro sfodera le proprie conoscenze nei campi di interesse: la ragazza è esperta di mucche, e stanno scambiano esperienze e differenze sui diversi metodi di allevamento tra bovini e ovini con impressionante dovizia di particolari. Saluto e riprendo la marcia di avvicinamento al campeggio che raggiungo alle 12.30. Seduto al patio del bar faccio fuori il tramezzino preso ad Arborea (in questa stagione il ristorante del campeggio è chiuso a mezzogiorno), assorto nella lettura. Gli ultimi dieci minuti di apertura del bar si rivelano utili per un Magnum alle mandorle. Segue bucato e, verso le 15.30, mi avvicino al mare. Che però è troppo mosso. per un bagno. Opto dunque per la provvidenziale piscina. Sdraio, telo, MP3, crema idratante protezione ZERO. Verso le 17.30 quattro vasche. Verso le 19 dichiaro conclusa l’esperienza balneare e mi dedico al riassetto e pulizia della tenda, doccia e taglio capelli col rasoio (mannaggia alla pupazza riesco anche a tagliuzzarmi). Cena – sto morendo di fame!!!! Ri-burp (anche se stasera mi sono moderato col vino…). Percorrenza: 0
EURO!!!! Gli venisse un mal di denti!!! Riprendo la marcia dopo aver subìto la rapina a mano armata, e poco più avanti sosto all’estremità nord del pontile che attraversa la baia fino a Sant’Antonio di Santadi, per fare delle foto. Mi soffermo a fare due chiacchiere con Anna e Marco, da Milano, dopo che hanno inconsapevolmente tentato di tirarmi sotto con l’auto a noleggio. Si dimostrano ammirati per la mia iniziativa e per l’organizzazione, e vogliono sapere da dove vengo e dove stia andando. Loro stanno arrivando da Sud e proseguiranno a Nord. Dal pontile cominciano a sfilare a tutta velocità i concorrenti di una competizione di endurance cross, ne incontrerò parecchi nel prosieguo della giornata. Mi risolvo alfine ad attraversare il lunghissimo pontile, cosa che faccio con andatura flemmatica anglosassone, ben conscio che gli autoveicoli alle mie spalle, costretti alla mia stessa velocità, non possono fisicamente sorpassare tanto la carreggiata è angusta. Il pontile, infatti, altro non è che una strettissima passatoia di servizio per la manutenzione e l’operatività delle chiuse che regolano l’afflusso delle acque marine all’interno della baia, a scopo di pesca. Senza essere stato originariamente pensato per il traffico motorizzato, col tempo è invece divenuto una comoda scorciatoia che evita il periplo dello stagno, consentendo di abbreviare il tragitto di una ventina abbondante di chilometri. I mezzi che affrontano la traversata e si incrociano sul pontile in senso opposto sono però costretti a manovre folli, rallentare, letteralmente sfiorarsi a due all’ora a volte dovendo ritrarre gli specchietti laterali, spesso indietreggiare per prendere meglio la mira. Furgoni e autocarri debbono addirittura fermarsi alle opposte imboccature prima di salire sul pontile, aguzzare la vista e procedere a tutta birra solo se sicuri che nessuno sta giungendo in senso contrario, altrimenti sono guai. E infatti svariate tracce di vernice multicolori decorano tratti delle sponde in cemento armato, testimoniando casi di miopìa, eccessiva fretta, o imperizia nell’incrociare altri veicoli, a tutto vantaggio dei carrozzieri della zona. Ma la fluidità con cui tutto ciò avviene denuncia una radicata forma mentis della popolazione locale orientata al rischio calcolato, o alla rassegnazione. Giunto dalla parte opposta del pontile acquisto dei pomodori ad un chiosco improvvisato di bellissima frutta e verdura locale. L’anzianissimo venditore – poco avvezzo alle diavolerie moderne – ingaggia una intensa colluttazione con la bilancia elettronica per pesare la verdura. Alla fine l’aggeggio decide in autonomia di rimettersi in riga. Riprendendo il cammino in direzione di S.Antonio di Santadi sfilo davanti all’ingresso della base radar di Capo Frasca, si intravede pure la girante spazzare ciclicamente l’orizzonte. Superato il centro abitato iniziano le salite, nulla di paragonabile alla Alghero-Bosa né alla Bosa-Cùglieri, però la fatica, per la prima volta, comincia a farsi sentire. Avverto un accenno di cedimento, forse dovuto al percepire l’approssimarsi del termine dell’esperienza. Tra un saliscendi ed un tornante sfilano a tutta velocità i concorrento della gara di cross, ancora in corso. Per evitare le ore più calde della giornata scelgo di sostare a Porto Palma. Dal cocuzzolo di un promontorio scosceso il paesello domina verso nord su una spiaggia a dir poco immensa, con stabilimenti balneari e chioschi bar-tavola calda. Scendo a rotta di collo lungo una ripidissima e contorta – ma ben tenuta – strada comunale che porta svelto ad un amplissimo parcheggio. Già intravedo che un gelato ed un caffé premono per proporsi dopo il panino. Trascinando faticosamente e col sole a picco la bici sulla sabbia approdo al primo chiosco, e domando ove poter lasciare la dueruote. Mi viene indicato, non senza sorpresa da parte del mio interlocutore, un angolo ombreggiato dietro una staccionata. Nonappena sistematomi vengo redarguito severamente da un losco figuro, sbucato probabilmente da sotto una duna, che mi ammonisce sulla destinazione d’uso dell’angolino riparato, riservato ai clienti del ristorante. Ignorando quali nefasti effetti possa mail provocare la vista di una bici sulle funzioni gastroepatiche degli avventori, faccio garbatamente notare di esser lì in seguito ad un suggerimento datomi dallo stesso ristorante. Vengo in ogni caso vivamente invitato a togliermi dai piedi. Cosa che eseguo prontamente (l’aria si è fatta pesante), ma non prima di sferzare, all’indirizzo del turpe personaggio, l’osservazione che IO STESSO e la mia comitiva di QUINDICI ciclisti stavamo per servirci del ristorante. La piccola menzogna mi vale la soddisfazione della faccia del brutto pirla mentre me ne vado. Ripercorro a ritroso la passatoia (si fa meno fatica) fino all’ingresso della spiaggia, e mi parcheggio al parcheggio… Panino, pomodori e frutta sono allietati dal viavai di gente, i primi turisti della stagione e solitamente i più saggi, un vero campione umano assai interessante. Il caffé lo prendo ad un baretto che sta aprendo proprio in quel momento. Non posso non notare le vetrate crepate in contrasto col resto del locale, ristrutturato di fresco. Apprendo con dispiacere dal giovanissimo proprietario che il locale è stato recentemente vandalizzato, e questo fatto sta creando non poche grane e ritardi per l’apertura stagionale. Il tizio è gentile, e mi consente di tenere la biki sotto l’ombra del suo patio. E quindi telino, lettore MP3, acqua e vado in spiaggia. Prendo il sole tra le dodici e le due e mezza senza protezione (tanto è già da stamattina che pedalo senza maglietta). L’ideale per una cottura a fuoco lento. Rosolato a puntino e bello croccante mi riscuoto e riprendo a pedalare, conscio della mega-salitona fino all’abitato sul cocuzzolo del promontorio. Me la cavo in mezz’oretta, e mi rituffo nei saliscendi verso sud. Il viavai di motociclisti in gara in tutte queste ore non ha accennato a diminuire. Per sentirmi meno solo comincio a salutarli tutti, puntualmente ricambiato. Faccio varie soste per bere e scattare fotografie, il vento è aumentato considerevolmente e a momenti spira contro. Il Monte Arcuentu severo mi scruta da est. Oltrepassata Marina di Arbus la strada si fa sterrata, e scopro che i turbocentauri sbucano proprio da quella direzione. Più avanti, in corrispondenza di un guado è appostato colui che credo sia il fotografo ufficiale dell’evento, che mi scatta anche una foto mentre attraverso il corso d’acqua pedalando. Mi sovviene solo dopo una decina di chilometri che avrei potuto chiedergli come avere la foto…. peccato. Mi aggiro in paesaggio adesso lunare, con ampie tracce dell’attività mineraria che ha interessato questa zona sino a pochi anni fa. Sono infatti entrato nel Parco Geominerario del Sulcis-Iglesiente, dove nei decenni (se non dei secoli) passati ha avuto vita l’epopea dei minatori di metallo e carbone. Le vene dei metalli che impregnano le rocce circostanti colorano infatti ogni porzione del campo visivo, con un effetto cromatico da Pianeta Marte. Il torrente appena guadato scorre in un letto di fanghiglia di un vivido rosso-arancio, i contrafforti pietrosi che chiudono la visuale sono striati di verde, stratificati di varie tonalità di grigio o ricoperti di depositi giallastri. Il tracciato è maledettamente polveroso, al passaggio delle auto nuvoloni di minutissimi corpuscoli aleggiano nell’aria per svariati minuti, mozzandomi il respiro e depositandosi addosso, sulla bici, negli ingranaggi. Il debole vento non aiuta, sospingendo ulteriormente le nuvole nella mia direzione. Dopo un pò non ce la faccio più, e chiedo alla conducente dell’ennesima auto di lasciar andare avanti me per non dover mangiare la sua polvere. Mi concede la cortesia, sono due donne con figli a zonzo per la zona. Le reincontro più avanti ad un secondo guado, che attraverso però a piedi anche per sciacquarmi un minimo, sono totalmente ricoperto di polvere appiccicata dal sudore. Giungo all’ingresso del campeggio verso le 17, e considerato che l’indomani non avrò tempo per fare turismo, tiro dritto dirigendomi direttamente alla spiaggia di Piscinas, giusto per poter dire di esserci stato. Appoggio il potente mezzo ad un palo dopo aver disceso la lunga passerella in legno, e mangio la mia frutta seduto per terra. La scena però non passa inosservata, e tutti, ma davvero tutti, passando osservano incuriositi, commentano, salutano. Una donna mi interpella entusiasta, vuole conoscere i dettagli della mia esperienza, viene raggiunta dal resto del suo gruppo: sono liguri, e stanno meditando di fare l’Olanda a Luglio. Auguro loro di non desistere e li saluto. Mi risiedo sulla passerella a finire la mia frutta quando la voce più impastata dell’universo mi apostrofa da tergo. E’
Salvatore, il dimesso quanto alticcio parcheggiatore comunale che, di passaggio verso il presumibile ennesimo goccetto al chiosco bar, mi minaccia di elevare verbale causa sovraccarico di mezzo a pedali. La mia risata liberatoria di un minuto e mezzo mi sgrava da tutte le fatiche degli ultimi giorni, e sono pure costretto a declinare l’invito del parcheggiatore alcoolico ad aggregarmi per bere con lui. Ringrazio e prendo congedo, si sta facendo tardi e devo ancora accamparmi. L’arrivo al campeggio Sciopadroxiu è venato di intense contumelie ed improperi all’indirizzo di chi abbia mai ideato il viale di ingresso: un’erta ripidissima pavimentata di lastroni sconnessi, un vero incubo cicloturistico. Il luogo però si rivela notevole, bello, comodo, confortevole. Mentre sbrigo il check-in domando informazioni sulla strada per Iglesias, ancora incerto se proseguire vero sud oppure accorciare per S.Gavino Monreale a est e prendere il treno. Ma le ragazze della reception non paiono ferrate in materia, e per giunta il fatto di viaggiare in bici getta l’incertezza totale su qualsiasi stima del tempo di percorrenza. Mi riservo di decidere in un secondo tempo, magari l’indomani stesso, e per non sapere né leggere né scrivere pago in anticipo il soggiorno onde non escludere eventuali partenze antelucane. Montaggio tenda: molta gente incuriosita dalla bici passa, osserva e saluta. Noto passare un tedesco incontrato qualche ora prima lungo la strada per Piscinas: mi avvicina e mi chiede qualcosa del mio viaggio, dell’itinerario coperto, e ci diamo appuntamento per cena al ristorante del campeggio. Sempre mentre monto la tenda compare una coppia in vespino sovraccarico di bagagli sino all’inverosimile. Non riesco ad esimermi dallo sfotterli un pò, ma mi rimbeccano sul fatto che in materia di bagagli sono più estremo io. Anche con loro l’appuntamento è a cena. Quindi doccia, niente bucato per risparmiare tempo, e neppure materassino in tenda (la pagherò ASSAI cara la notte stessa). Mi appropinquo a mangiare con l’appetito di un branco di iene. Ritrovo Reiner il tedesco, e riattacchiamo conversazione. Lo scopro essere un designer CAD-CATIA di componenti di auto di lusso. La cena è buona, la chiacchierata pure, ma il troppo sole preso oggi comincia a farmi un bruttissimo scherzo. Emano infatti moltissimo calore, comincio a sentire un freddo pazzesco a causa della dispersione termica corporea, la pelle vira tutta contemporaneamente al rosso aragosta, violaceo in alcuni punti, ed è dolorante. Mi accomiato dal teutonico, percepisco sormontare lo scompenso termico del mio corpo, raggiungo la tenda in preda ad un tremito violento ed irrefrenabile che solo la felpa da ciclismo riesce a moderare. Nonostante provi l’esigenza materiale di infoderarmi sul presto, mi addormento che è quasi l’una, non senza una certa preoccupazione per le mie condizioni fisiche. Non ho neanche la forza e la lucidità di darmi dell’imbecille. Percorrenza: oggi 61 km – totali 331 km. Tempo totale pedalato: 4 ore 14 minuti
restituire luce al giorno: mi spiega che quella è la VECCHIA stazione, non più in uso. Fuori dal paese, dal lato opposto, è stata realizzata la NUOVA stazione, e me ne indica i cartelli. Riprendo a pedalare con lena, il mondo mi appare più bello. La famosa NUOVA stazione di S.Gavino è spettacolare, ultramoderna, dotata nientepopòdimenoché di rampe per biciclette, passeggini e carrozzine che raggiungono direttamente i binari. Faccio il biglietto compreso di supplemento bici, e già che ci sono faccio anche quello da Genova per l’indomani. Mi installo in sala d’aspetto, la stazione è deserta. C’é anche una
toilette decente. Mangio, bevo, asciugo la bici ed il carico. Cincischio in attesa del treno prendendo gli appunti del giorno prima. All’orario previsto mi porto sul binario, ed all’arrivo del treno vengo colto da subitaneo sconforto: è il classico trenino diesel in miniatura, angusto e scomodo, nessun pittogramma ad indicarmi ove salire con la bici. Mi affretto a salire con baracca & burattini, lego tutto in uno dei vestiboli con le porte e mi accomodo. Salvo accorgermi alla successiva fermata che sto ostruendo uno degli ingressi alla carrozza. A treno fermo vengo raggiunto da un garbato capotreno che mi invita a seguirlo, mi mostrerà il bagagliaio dove collocare la bici. Dopo un tentativo andato a vuoto causa saracinesca difettosa cambiamo carrozza, carico il tutto, e nell’issarmi attraverso la porticina del bagagliaio – PEM! – mollo una craniata con l’eco alla sbarra di fermo dell’avvolgibile metallico. Dico così addìo a mezzo metro quadro di cuoio (una volta) capelluto, ed al senno residuo contenuto nella scatola cranica. Il garbato ferroviere, una volta rimesso in marcia il convoglio, mi assiste portandomi ovatta e acqua ossigenata dalla cassetta di bordo. In treno dormicchio e scrivacchio. A Porto Torres piove, scarico la bici e rimonto le borse sotto l’acqua. Mi incammino verso il
nuovo imbarco, ma solo per apprendere che la biglietteria è rimasta all’imbarco vecchio, il porto industriale un paio di chilometri più ad ovest. Copro la distanza con foga, i tempi cominciano a stringere, e in un men che non si dica faccio ritorno munito di biglietto. Salendo sul traghetto ritrovo gli stessi addetti alla rampa dell’andata, domenica 24 maggio a Genova, che mi riconoscono e come se fossi un amicone di lunga data mi domandano come sia andato il giro. Lego la bike, salgo con tutto il necessario per il pernottamento, mi piazzo in sala poltrone. Nuovamente la doccia non ha acqua calda, ma la temperatura ambiente è notevolmente più bassa dell’andata, quindi opto per una rinfrescata a pezzi. Mi avvento sul self-service con l’appetito di un battaglione artiglieri, e nell’ordine scompaiono nel gargarozzo penne al pomodoro, cotoletta con patatine e maionese, verdure bollite misto cavolfiori-carote-fagiolini, insalata mista lattuga-pomodori, fetta di torta, e RUTTO LIBERO. Onde emulsionare adeguatamente il tutto sosto al bar per una lettura di Dylan Dog e Vecchia Romagna. 22.30 tutti in branda. Nella sala poltrone la mascherina sugli occhi di notte ha il suo gran perché. Percorrenza: oggi 40 km – totali 371 km
passaggio rivestita da questa città nel mio vissuto. Vicoli dove ce la faccio appena a passare con la bici, larghi quanto le borse. Traccheggio a sazietà, dopodiché dirigo verso la stazione, già paventando enormi sforzi per gestire bici+borse nell’inenarrabile dedalo di scale. Col furbissimo trucco di avanzare con le borse sganciate riesco a cavarmela meno peggio del previsto, alternandomi su e giù per le scale prima le borse e poi la bici. Bivacco al binario 17 fino sino a quando il treno si anima e salgo. Mentre assicuro la bici ai supp orti all’uopo predisposti fa il suo ingresso un altro pazzo dotato di una invidiatissima Ci
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